(di Aldo Nicosia*). A distanza di più di un ventennio dalla fine (ufficiale) della guerra in-civile, c’è una piaga aperta nell’animo di migliaia di libanesi, e che costituisce un grosso ostacolo alla riconciliazione tra le diverse componenti confessionali del Paese e a quella col vicino siriano: il dossier dei “desaparecidos”, rapiti, detenuti durante la guerra, torturati nelle prigioni siriane (e israeliane?).
Di essi si era già occupato il documentario di Bahij Hojeij, Kidnappés (Rapiti, 1999). Il regista ritorna su quel tema scottante e per tanti anni considerato tabù, ma stavolta lo fa utilizzando lo stile della fiction: ed ecco che Shatti ya dini (Che venga la pioggia, 2010) diventa l’occasione per riflettere sul tema della memoria “sequestrata” dei libanesi, e della disintegrazione della microsocietà familiare, e per estensione della macro-società tutta, che brancola alla deriva, senza ancore di riferimento, verso un nomadismo individualista e un monadismo autodistruttivo.
Il regista segue tre linee di narrazione: una documentaristica, del tutto indipendente dalle altre, ma indispensabile per capire la carica “civile” del film, e le altre due legate dalle azioni del protagonista maschile. Si tratta di Ramez (l’attore Hassan Murad), che rientra a “casa”, dopo esser stato detenuto politico per più di vent’anni.
Ma all’interno della sua ritrovata famiglia, l’uomo si sente perso. Per i figli che faticano a comprendere il suo dramma, lui è uno sconosciuto. Solo la moglie Marie (interpretata da Julia Kassar), con affetto e sovrumana pazienza, cerca di ridare un senso a una vita familiare sfilacciata e minata dall’assenza di un padre. Anche all’esterno delle mura domestiche, Ramez cade spesso preda ad allucinazioni e paure, e sembra aver smarrito il suo posto in una Beirut trasfigurata, che egli fatica a riconoscere. La sorte lo fa incontrare con Zaynab (la convincente Carmen Lebbos), una giovane che ha sospeso la sua vita, attendendo il ritorno del marito, anche lui rapito tanti anni fa, e crede di aver trovato in Ramez un’ancora di speranza per attingere notizie su di lui.
La prima linea narrativa si distingue da quelle di fiction per la scelta del bianco e nero: è la poetica ricostruzione della vicenda di una giornalista, Nayfe Najjar (Bernadette Hodeib), che, dalle pagine del suo quotidiano as Safir, invoca la restituzione del figlio tredicenne rapito, nel 1984. Le sue accorate lettere stanno qui ad esprimere il dramma di migliaia di madri e familiari che si sono viste strappare i loro cari da una assurda guerra, e della cui sorte non sanno più nulla. Dopo un calvario durato nove mesi, Nayfe farà un gesto estremo.
Qui il regista sceglie di non politicizzare il dramma dei makhtufun, i rapiti, evitando accuratamente di caratterizzare e dare un’identità confessionale a coloro che prelevavano le vittime e ai carcerieri, anche per riaffermare che, nel ginepraio del conflitto libanese, tutte le componenti sociali, di qualsiasi religione, nazionalità o credo partitico, si sono macchiate di tali efferati crimini.
Shatti ya Dini si ispira liberamente a una pièce teatrale scritta da Sam Bardawil e Iman Humaidan, dal titolo Innaha tumtir akyasan (Piovono sacchetti). Nel film Ramez sviluppa il vizio compulsivo di collezionare sacchetti da confezione: riferimento simbolico a quelli di nylon utilizzati per torturare i detenuti, frammenti di identità da ricostruire, o cos’altro ancora?
L’atmosfera di malinconia e tristezza che pervade il film, supportata dalle classiche melodie del violoncello, a volte cede il posto a quella di una Beirut by night da sballo, che affoga nell’alcol dei club l’angoscia di un futuro fosco per le giovani generazioni, che sognano un visto per… l’altrove, lontani da se stessi.
Ma forse la pioggia catartica del titolo del film, che è anche quello di una canzone della nostalgica Fayruz, formatterà i peccati, i sensi di colpa, laverà le imposture, i silenzi criminali, in vista di una reale riconciliazione con se stessi e con quel che appare sempre più il sintomo di una psicosomatica nazione?
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* Aldo Nicosia è ricercatore e docente di lingua araba.
Il film è disponibile su Youtube a questo link.
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