Nahr al Bared tra spazi di eccezione, nakba e ricostruzione

“Asking me what happened?/ Those who hit have run

 Those who passed by have looted/ And some of them have burned.”

(Farhan Abu Siyam, rapper di Nahr al Bared)

(di Elisa Piccioni*). Sono passati quasi cinque anni dalla fine del conflitto combattuto nel campo di profughi palestinesi di Nahr al Bared tra l’esercito libanese e Fath al Islam, oscura sigla del fondamentalismo islamico. Lo scontro svoltosi da maggio a settembre 2007 ha causato circa 360 morti, 1.900 edifici in macerie e 5.500 famiglie di sfollati.

Il processo di ricostruzione, che sarebbe dovuto terminare entro il 2011 e per il quale sono stati stanziati più di 150 milioni di dollari, non è neanche a un terzo dell’opera. Cinto dal filo spinato, isolato dal regime dei permessi e ancora immerso nelle macerie, Nahr al Bared non si è mai scrollato di dosso quella guerra.

Racconto di una giornata nel cuore ferito di un campo profughi palestinese in Libano.

Murales nel nuovo campo

Benzal hon” (“scendo qui”, in dialetto libanese) dico al conducente del van appena riesco a scorgere la scritta verde Allah che domina la piazza centrale di Tripoli. È qui infatti che mi aspetta con la sua macchina Ali, palestinese di Nahr al Bared, per accompagnarmi verso il vicino campo profughi.

Posizionato tra Tripoli, la seconda più grande città del Libano, le piane agricole della regione dell’Akkar e l’autostrada che raggiunge Abdeh sul confine tra Libano e Siria, Nahr al Bared (lett.  “il fiume freddo”) è per grandezza il secondo campo profughi palestinese in Libano. Prima del conflitto ospitava circa 40.000 persone.

A dispetto dell’emarginazione dei palestinesi in Libano dal mercato del lavoro formale, l’attivo spirito imprenditoriale dei suoi abitanti, combinato a una posizione strategica, aveva facilitato la crescita del campo come un importante centro economico. Come raccontano i suoi abitanti, sul finire degli anni ’80, il campo somigliava a una vera e propria città palestinese… in Libano.

I cittadini libanesi del nord entravano frequentemente a Nahr al Bared per vendere i propri prodotti agricoli e acquistare a prezzi competitivi i prodotti manifatturieri dei rifugiati. In tal modo, il campo sfidava la politica di contenimento e marginalizzazione applicata dallo stato libanese nei campi palestinesi.

Quest’anomala integrazione sociale ed economica svanì però nel 2007 quando lo scontro armato causò la distruzione del campo. Il conflitto del 2007 fu il più aspro episodio di violenza avvenuto in un campo profughi dalla fine della “guerra dei campi” (1985-1990): la presunta minaccia salafita portò l’esercito libanese a indirizzare le proprie armi all’interno del proprio territorio, ovvero verso quelle aree eufemisticamente descritte dai media come “isole di sicurezza” per sottolineare la mancanza di sovranità dello Stato libanese in tali spazi.

Fu proprio questa mancanza di sovranità, formalizzata nel 1969 dagli accordi del Cairo (ma formalmente revocata nel maggio del 1987), e l’impossibilità dell’esercito libanese di entrare nel campo, a essere invocata dal governo per spiegare l’imponente mobilitazione di forze impiegate durante conflitto.

L’origine di Fath al Islam è tutt’ora incerta. Alcuni osservatori hanno indicato il gruppo terrorista legato alla vicina Siria, che cercava di destabilizzare il Libano, allora guidato dal governo anti-siriano di Fuad Sanyura. Altri – come il giornalista americano Seymour Hersh – ipotizzarono un coinvolgimento di una parte della classe politica libanese stessa, desiderosa di finanziare i gruppi salafiti a nord del Paese per bilanciare lo strapotere di Hezbollah al sud.[1]

Qualunque sia la misteriosa origine dei militanti, che, secondo un articolo apparso sul quotidiano al-Akhbar (vicino al movimento sciita sostenuto da Iran e Siria) il 23 gennaio scorso, sarebbero arrivati anche dall’Algeria e dal Marocco, e tra i quali – come racconta Ali durante il tragitto – vi erano anche ragazzini disorientati convinti di trovarsi lungo il confine israeliano, sembra abbastanza certo che nessuno fosse originario del campo. Tuttavia furono proprio gli abitanti a pagare il prezzo più alto.

Il quotidiano di Beirut al Akhbar afferma, citando fonti della sicurezza libanese, che i miliziani che combatterono a Nahr al Bared entrarono in Libano dal confine con la Siria, nel nord e nel nord-est del Libano.

“Urbicidio” e militarizzazione in uno spazio di eccezione. Siamo in macchina da poco più di 15 minuti, quando sulla nostra sinistra iniziamo a scorgere in lontananza le sagome di alcuni vecchi edifici di Nahr al Bared.

Il metodo utilizzato dell’esercito libanese durante il conflitto, che rifiutò la collaborazione militare offerta da al-Fath, portò a una inevitabile e indiscriminata distruzione del campo che venne circondato dai carri armati e bombardato incessantemente per quasi tre mesi.

Quando, nel settembre successivo, alle prime famiglie evacuate durante il conflitto fu concesso di ritornare nel campo per recuperare i propri effetti personali, ad aspettarle vi era un cumulo di macerie.

I complessi residenziali, le proprietà commerciali, le moschee e le strutture dell’Unrwa (l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa dei rifugiati palestinesi) non erano più utilizzabili e giacevano in rovina, così come la rete idrica ed elettrica, le strade e le linee telefoniche.

“Quando l’esercito permise a me e a mio fratello di ritornare dopo mesi nel campo per recuperare le nostre cose, cercai la mia casa per un po’ e poi chiesi a mio fratello ‘Ma dove è?’, lui mi rispose: ‘Ci stai giusto camminando sopra’” – mi raccontò Ala, un ragazzo del campo, qualche anno fa, quando da volontaria entravo per la prima volta nel campo.

Ma non furono solo i bombardamenti a ridurre in macerie il campo. A partire dalla fine effettiva dei combattimenti nei primi di settembre, Nahr al Bared fu posto sotto esclusivo controllo dell’esercito libanese e per diversi mesi fu proibito ai residenti di rientrare nelle proprie case. Durante questo lasso di tempo le abitazioni, già distrutte dalla guerra, subirono documentati atti di vandalismo, come incendi dolosi, graffiti e saccheggi.

Gli abitanti si sono così ritrovati a subire un vacuum giuridico, in cui le loro vite potevano essere messe a rischio, le loro case distrutte e saccheggiate senza che i colpevoli andassero incontro a sanzioni. Fino a oggi nonostante gli appelli indirizzati da Amnesty International al primo ministro libanese – attualmente Najib Miqati, vicino alla Siria – non è stata avviata nessuna investigazione per l’accertamento delle responsabilità.

Come emerge dal documentario realizzato dal collettivo a-flims nel 2008[2], molte famiglie quando sono ritornate nelle loro case per recuperare i propri effetti personali, hanno trovato biancheria femminile rimossa o imbrattata con scritte, copie del Corano nei gabinetti e utensili da cucina sporcati con escrementi.

Adam Ramadan, ricercatore dell’università di Oxford, suggerisce che “l’urbicidio” (termine che vuole indicare ‘uccisione’ o violenza contro una città) accaduto a Nahr al Bared, sia durante che dopo i combattimenti, sia andato ben al di là di ogni possibile necessità militare e costituirebbe piuttosto una deliberata scelta di distruzione.

Una strategia, argomenta l’autore, di silent transfer simile a quella sostenuta dalla destra israeliana e volta a contrastare la crescita demografica palestinese e la tawtin (la “naturalizzazione” della presenza palestinese in Libano) attraverso la distruzione fisica del paesaggio urbano.[3]

L’impressione dominante fra gli abitanti fu infatti che le armi e le bombe lanciate dall’esercito governativo di Beirut non fossero dirette solo contro i militanti, ma anche contro i muri, le case e le strade del campo: “I palestinesi in Libano hanno cominciato a emigrare dopo il 1972.

Prima il massacro di Nabatiyye, poi Tell al Zaatar, Dbayye e Shatila e ora Nahr al Bared. Dopo tutti i più grandi massacri avvenuti in Libano il numero di palestinesi che emigra aumenta considerevolmente. L’unico modo per far loro dimenticare la Palestina è offrire un futuro migliore da qualche altra parte.”- mi disse una volta Ahmad,  direttore di un’Ong che opera a Nahr al Bared.

Arrivati al check-point di al Mhammara, uno dei cinque che circondano il campo, i soldati di guardia eccezionalmente ci fanno passare senza chiederci i documenti. Una gentilezza fuori protocollo che il mio accompagnatore sottolinea con orgoglio: “Non mi hanno fatto neanche scendere dalla macchina, è rarissimo: è che ormai mi conoscono!”

Dalla fine della guerra le procedure di sicurezza sono state soffocanti. Per entrare e uscire dal campo anche gli stessi abitanti dovevano passare per le strette misure dei posti di blocco, scendere dalla macchina, mostrare il permesso, farsi perquisire.

Oggi i cittadini libanesi e le donne possono entrare senza richiedere un permesso speciale alla polizia, ma è comunque necessario farsi riconoscere e perquisire all’ingresso. “Non ci sono più armi né militanti a Nahr al Bared, tutto è sotto il controllo dei militari, eppure chi vive qui è ormai destinato ad essere trattato come un potenziale criminale” – mi dice Ali mentre dal retrovisore scorgo un uomo scendere dalla sua vettura e aprire il portabagagli per un’ispezione.

Il posto di blocco che abbiamo appena passato non è però l’ingresso nel vero e proprio campo, quello per intenderci riconosciuto dall’Unrwa. Siamo piuttosto nel mukhayyam jadid, il campo nuovo, l’area informale abitata da palestinesi, ma non solo, che si è formata intorno al mukhayyam qadim (il vecchio campo) per rispondere al bisogno di nuovi spazi dovuto all’aumento demografico della popolazione palestinese.

Qui la ricostruzione degli edifici danneggiati dal conflitto è proceduta più velocemente (soprattuto grazie a fondi privati) e tra strade sterrate e fango hanno riaperto i primi negozi. Ma è anche in questa parte del campo che si trovano le “baraquet”, unità abitative provvisorie, in lamiera o cemento, che ancora ospitano migliaia di rifugiati che attendono la ricostruzione delle proprie abitazioni.

A quasi cinque anni dal conflitto, famiglie di quattro-cinque persone, vivono in spazi di appena diciotto metri quadri. “Non c’è intimità qui. Le abitazioni sono così vicine che si sente tutto da una casa all’altra”- mi spiega la mia guida mentre camminiamo tra le anguste e buie vie che separano i containers – “Di sera se senti il volume della televisione alzarsi un po’, vuol dire che qualche coppia sta cercando un po’ di intimità…”.

Una nuova nakba e le sfide della ricostruzione. Mentre ci allontaniamo dalle “baraquet”, un murales con la scritta “1947-2007” spunta su una parete.

A seguito del conflitto, i rifugiati hanno perso tutto: casa, lavoro, mezzi di sussistenza. Il luogo dove avevano accumulato più di sessanta anni di memorie ed esperienze giaceva in polveri e detriti. L’impatto della guerra sulla popolazione fu tale che molti rifugiati la paragonarono all’esperienza della nakba, la “catastrofe” che colpì il popolo palestinese nel 1948.

Per alcuni non era la prima esperienza di distruzione vissuta. Molti degli abitanti più anziani, infatti, erano arrivati a Nahr el-Bared dopo aver subito precedenti disfacimenti del posto in cui vivevano, come quello avvenuto nel campo di Tell al Zaatar a Beirut est che, con il supporto della Siria fu completamente distrutto dalle milizie cristiane-falangiste nel 1976. Dopo la sua distruzione, Tell al Zaatar, così come prima di questo il campo di Jisr al Basha, non fu mai più ricostruito.

Alla fine della guerra, un nuovo clima di sospetto tra palestinesi e libanesi, ha dunque rischiato di compromettere il difficile cammino di convivenza tra le due comunità.

Da un lato la completa distruzione del campo e la “punizione” inflitta all’intera comunità sembrava accusare indirettamente gli abitanti di aver favorito lo stanziamento del gruppo terroristico nei loro spazi. Dall’altro lato, l’intervento distruttivo dell’esercito rischiava di compromettere la fiducia dei rifugiati nelle autorità, facendo riemergere lo spettro dello sradicamento dei campi palestinesi in Libano.

Come dichiarato dall’ex primo ministro Sanyura al termine del conflitto, Nahr al Bared si presentava come un test case volto a rispondere a due principali domande: come migliorare le relazioni libano-palestinesi; e se e come lo Stato libanese potesse assumersi la responsabilità della sicurezza nei campi. Nahr al Bared avrebbe dovuto costituire un modello per gli altri campi, un primo passo verso una nuova era delle relazioni libano-palestinesi.

Nel giugno del 2008 il governo austriaco organizzò, in cooperazione con quello libanese, l’Unrwa e la Banca Mondiale, una conferenza di donatori per effettuare una prima indagine sui costi della ricostruzione ed elaborare un piano generale per il recupero del campo. L’obiettivo ultimo era di ricostruire le abitazioni il prima possibile  (entro il 2011) e creare un ambiente più sano e sicuro per i rifugiati.

Risalgo in macchina con il mio accompagnatore e dopo aver percorso shari’ Allah, la strada principale del campo, arriviamo al cuore di Nahr al Bared, il vecchio campo, rimasto inaccessibile fino ad aprile dello scorso anno, quando le prime 369 famiglie poterono rientrare nelle nuove case.

“Questo in cui stiamo camminando – afferma Ali – è solo uno degli otto packages, in cui è stato suddiviso il campo, gli altri sono ancora da completare”.

Mura bianche, strade asfaltate e architettura regolare, questa nuova area residenziale ha poco in comune con il tradizionale aspetto di un campo profughi, solitamente caratterizzato da un’abbondanza di simboli palestinesi. Solo qualche sporadico poster di Yassar Arafat predice il processo di riappropriazione culturale e identitaria che con tutta probabilità avverrà in questi spazi.

Un’anziana donna spunta tra i vicoli quasi deserti e ci invita a entrare nel suo nuovo appartamento. “Sono strette – ci dice mentre saliamo al primo piano – queste scale sono troppo strette”.

Alla fine del conflitto, un gruppo di ingegneri e volontari, per di più originari del campo, fondò la “Nahr al Bared Reconstruction Commission for Civil Action” (Nbrc) per svolgere da intermediario tra gli abitanti del campo, l’Unrwa e il governo libanese.

Lo scopo era quello di sviluppare delle linee guida generali per una pianificazione consensuale della ricostruzione in modo da assicurare che le esigenze della popolazione venissero prese in considerazione. Oltre al timore di non vedere mai le proprie case ricostruite, a preoccupare i rifugiati vi era la paura di veder mutare le logiche con le quali avevano organizzato i proprio spazi per più di sessant’anni.

Per non distruggere il tessuto sociale del campo, il piano generale prevedeva dunque una ricostruzione che fosse attenta alle esigenze delle famiglie allargate palestinesi e riproducesse la stessa geografia di vicinato che esisteva prima del conflitto.

“Abbiamo condotto numerosi colloqui per elaborare delle mappe mentali del campo – mi spiega Luay Tannos, membro della Nbrc – e abbiamo diviso l’area in otto packages, ognuno delle quali rappresenta un quartiere, per lo più abitato da famiglie provenienti dalla stessa zona della Palestina. Sebbene abbiamo cercato di essere il più accurati possibile, non potrà essere esattamente come prima”.

Il processo di ricostruzione ha dovuto rispondere a una moltitudine di esigenze: l’Unrwa suggeriva uno spazio più luminoso e arieggiato per migliorarne la vivibilità, mentre l’esercito libanese imponeva nuove misure di sicurezza.

Le strade sono così diventate più grandi per permettere il passaggio di veicoli, il numero di balconi è diminuito e si è fissato a quattro il numero massimo di piani per gli edifici. Questi criteri hanno reso necessario una riduzione dello spazio privato di circa il 15 per cento.

“Alcune famiglie sono contente perché ora vivono in edifici nuovi – continua Tannos – ma altre sono insoddisfatte e molti iniziano già a chiedersi come potranno allargare gli edifici una volta che il processo di ricostruzione sarà terminato, ma questo non sarà più possibile”.

A causa di una cronica mancanza di fondi, contrasti con l’esercito, cavilli burocratici e ritrovamenti di antichità, il termine della ricostruzione di Nahr al Bared, originariamente previsto per il 2011, richiederà ancora molto tempo.

Un’altra ricostruzione, però, quella economica, rischia di essere definitivamente compromessa da cinque anni di isolamento e misure militari. Chi accetterebbe infatti di subire umilianti procedure di sicurezza per entrare nel campo, quando potrebbe semplicemente fare i propri acquisti altrove?

“Qualche attività commerciale è ripartita – continua Tannos – ma chi ha potuto, ha trasferito le proprie attività altrove, ad esempio nel campo profughi di Beddawi e non sappiamo se deciderà di riportarle indietro una volta che il processo di ricostruzione sarà terminato”.

L’Unrwa stima che dopo il conflitto la percentuale di disoccupazione all’interno del campo, sia passata dal 27% a quasi l’80%.

Hussein, un amico che ci rifocilla con tonno e peperoncino, fa parte di questa percentuale. Seduti nella sua abitazione provvisoria di sei metri quadri allestita nel fazzoletto di terra dove una volta si trovava la sua casa, Beirut appare molto più lontana di un’ora e mezza di auto.

Trattati come civili di seconda categoria durante il conflitto e security subjects nel corso della ricostruzione[4], i rifugiati di Nahr al Bared sembrano essere tenuti lontani dalla possibilità di una vita normale.

Con una caserma della polizia appena terminata nell’area adiacente, un postazione permanente dell’esercito governativo in programma e le voci della costruzione di una base navale militare sulla costa, è inevitabile interrogarsi su quale “nuovo modello di convivenza” si stia costruendo in questo luogo.

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* Elisa Piccioni vive e studia in Libano. Nel luglio 2009 ha partecipato al campo di lavoro “Assopace, Sci, PYCI”.


[1]  “Fatah al-Islam had support from US, claims Hersh”, Turkish Daily News, 24 maggio 2007.

[2]   “Nahr el-Bared camp: Traces of Collective Dispossession”, documentario a-films palestine, 31 marzo 2008, online.

[3]   Ramadan A., “Destroying Nahr el-Bared: Sovereignty and urbicide in the space of exception”, Political Geography, n. 28 (2009), pp. 153-163.

[4]  Questa analisi è stata sviluppata da: Mansour N., Yassin N., “Protecting refugees and governing spaces: the case of the reconstruction of the Nahr el-Bared Palestinian refugee camp in Lebanon” in Suleiman J., Mansour N. e Yassin N., No refuge: Palestinians in Lebanon, Refugee Studies Centre Working Paper Series n.64, Oxford Department of International Development, University of Oxford, UK, giugno 2010.