Beirut Art Center, venite e accomodatevi

Il logo del Beirut Art Center (Bac)Per il Natale e la fine dell’anno la sparuta comunità di italiani che vivono a levante si rarefa. Molti si animano per riavvicinarsi ai familiari lasciati in Italia, rinunciando così a una buona occasione per godersi un po’ di tempo libero in città.

E alternare alle compere natalizie qualche giro di riscoperta di Beirut: un’idea che richiede pazienza perché la capitale del Paese dei cedri è ancor più piena di macchine.

Le strade già intasate si cospargono infatti di auto con targhe saudite, del Kuwait, oppure di quelle con le placche verdi–azzurrine dei mezzi presi a noleggio dai libanesi che vivono all’estero e che rientrati per le feste non possono rinunciare alla macchina.

Se dunque non avete paura del traffico e siete amanti dell’arte contemporanea potete visitare il Beirut Art Center, che chiude e riapre l’anno con una mostra su sette artisti emergenti legati al Libano: non tutti di nazionalità libanese.

Cominciamo quindi il percorso di Exposure 2011 (fino al 21 gennaio 2012) con Laure de Selys, nata a Ginevra, vive e lavora a Beirut, che con un video intitolato Submarine ha provato a dare un diverso punto di vista su e dalla Palestina. Il riferimento al mare e al mondo sommerso è piuttosto pretestuoso

L’artista ha posizionato una videocamera dietro una sorta di vasca trasparente, piena d’acqua, che oscilla. L’intento dell’opera è quello di mostrare l’altalenare di un popolo, o meglio due, intorno a una linea di confine: che novità!

Altri video della mostra (e più interessanti) sono quelli di Ali Cherry, libanese, che con My pain is real ha lavorato sulla memoria collegata ai grandi eventi. L’artista dimostra che di fronte a giganteschi episodi di cronaca, ormai già passati alla storia, quello che si ricorda meglio sono solo dettagli di piccole cose. Lui ce li elenca raffigurando questi momenti di vita quotidiana su due piccoli schermi e su un terzo più grande.

Un’altra esperienza filmata è quella di Bassem Mansour e Dana Aljouder che si sono fatti riprendere durante una serie di “controversie” sonore in diverse parti del Libano. L’opera che sulla carta sembra così interessante è in realtà deludente. Se l’idea era infatti quella di farci conoscere contesti sonori differenti, uno si chiede perché si ritrovi sempre e soltanto di fronte ai due performers, obbligato ad ascoltarli mentre urlano o gemono come due ossessi.

Lasciate le stanze con i video, ci si ritrova nello spazio più grande della galleria che ha le pareti costellate dalle piccole foto non incorniciate di Moonlight boutique, di Setareh Shahbazi. Ispirata da una sorta di moderna anti-estetica, l’artista iraniana ha reso omaggio a oggetti e situazioni insolite: rigorosamente scovati in Libano.

Nella stessa sala, adagiate invece su due strutture simili a pilastri abbattuti, le due grandi immagini di vitrine 70 di Stéphanie Saadé rimandano in un modo non troppo scontato alla guerra civile. La didascalia spiega infatti che i due pezzi, altrimenti poco decifrabili, presenti in foto, erano conservati nel museo archeologico e sono gli oggetti rimasti superstiti della vetrina numero 70, appunto. Sarebbe stato il calore di un incendio scagionato da un’esplosione durante la guerra civile a riplasmarli in quel modo.

Un’altra opera che invece richiama alla mente l’attuale quotidianeità libanese è Toyota to Benz. Al centro della galleria è stata parcheggiata una vera e propria Mercedes che Franziska Pierwoss (tedesca) ha realizzato a partire dal telaio di una Toyota con pezzi di altre Mercedes trovati a Ouzai (un quartiere vicino all’aeroporto dove si può comprare di tutto). L’artista ringrazia un carrozziere di Mar Mikha’il (San Michele) per il contributo dato in particolare in fase di stuccatura e verniciatura della nuova prestigiosa carrozzeria: peccato che non si possa provare la macchina.

Prima di darvela a gambe o salire direttamente al piano di sopra, terminate il percorso della mostra con l’istallazione di Nadia Al Issa: Untitled (8km – A tribute to Danis Tanovic). Nadia è nata in Siria ma è cresciuta in Libano e ha voluto testimoniare la sua condizione di non appartenenza raccontando gli 8 km che separano il posto di frontiera libanese di Masnaa da quello siriano.

L’artista riporta testimonianze riprese dai giornali, campioni di terra, foglie e rametti raccolti e conservati in barattolini, le fotocopie del passaporto con i timbri di entrata e uscita, e poi mappe e oggetti utili per un eventuale viaggiatore-esploratore che vuol fare campeggio nella zona.

Rimane il piano di sopra dove il centro d’arte ha dato spazio a un designer libanese, Karim Chaya, non coinvolto in Exposure 2011, che si è sbizzarrito dando sfogo alla sua ossessione per le sedie a dondolo (foto in alto a sinistra). Se vi trovate sfaccendati potete quindi accomodarvi e riposare, testando tutte le differenti possibilità presentate dal designer in forma di sedia. Si può fare perfino un percorso a ritroso nella memoria perché Karim Chaya ha trasformato in dondolo anche le seggiole dietro ai banchi di scuola.

Per sapere come raggiungere il Beirut Art Center visitate la mappa del sito.