(ANSAMed) Il sogno di Israa, tredicenne palestinese del più affollato campo profughi del Libano, era di diventare fotografa. Sin da bambina, racconta mentre impugna una moderna Nikon digitale e si prepara ad un nuovo scatto, desiderava tradurre in immagini fisse la realtà attorno a lei.
Lubna, invece, sedicenne dello stesso campo di Ayn al Helwe nei pressi di Sidone, 40 km a sud di Beirut, non avrebbe mai pensato di poter scrivere su un blog e di condurre un’intervista, come una vera giornalista.
Israa e Lubna sono due dei 23 ragazzi di Ayn al Helwe, assembramento di circa 80.000 persone da decenni stipate in appena tre km quadrati di terreno chiuso da muri e posti di blocco, che hanno partecipato alla prima fase del progetto diretto dall’organizzazione non governativa Ctm di Lecce in collaborazione con l’associazione Elisso di Roma, specializzata in comunicazione sociale, e la Ghassan Kanafani Cultural Foundation, da quasi 40 anni operativa in sei dei 12 campi palestinesi ufficiali del Libano e responsabile di asili nido, centri per bambini diversamente abili e biblioteche per l’infanzia.
Intitolato “La comunicazione sociale in rete come strumento di integrazione multietnico e religioso in Libano”, il progetto, del costo totale di circa 90.000 euro, è finanziato per circa 40.000 euro dalla Conferenza episcopale italiana, mentre i restanti 50.000 euro sono stati stanziati dal Ctm e da Elisso.
Con quest’azione – afferma Ilaria Orlandi, direttrice del progetto – si intende favorire l’accesso e l’utilizzo dei mezzi di comunicazione sociale in rete per giovani palestinesi e libanesi attraverso corsi di formazione e l’istituzione di redazioni presso le biblioteche gestite dalla fondazione Kanafani nei campi profughi di Nahr al Bared e Beddawi a Tripoli (90 km a nord di Beirut) e in quello di Ayn al Helwe a Sidone.
Qui, da ottobre a dicembre, si è svolta la prima fase del progetto. E dei 23 ragazzi che avevano aderito all’iniziativa sono stati selezionati sei maggiormente motivati, assieme a due insegnanti, di cui una non vedente, e a un’addetta alla biblioteca locale della fondazione Kanafani.
In tutto, da ottobre 2011 a maggio 2012, saranno coinvolti circa 60 ragazzi palestinesi e libanesi, con età compresa dai 13 ai 18 anni, oltre ai responsabili delle biblioteche e altri operatori della fondazione intitolata a Ghassan Kanafani (1936-72). Romanziere, drammaturgo e giornalista palestinese, autore di numerosi scritti per bambini e, in seguito, portavoce del neonato Fronte popolare per la liberazione della Palestina, Kanafani fu ucciso assieme alla nipotina in un attentato dinamitardo a Beirut attribuito al Mossad israeliano.
“Lavorare assieme e il conoscersi – riprende Orlandi di Ctm – contribuisce a superare i pregiudizi e ad avvicinare i popoli di religioni e culture diverse, favorendone l’integrazione”. In tal senso la creazione di un blog (già online) e la compilazione di una newsletter sono gli strumenti che i ragazzi di Ayn al Helwe stanno imparando a conoscere, acquisendo dimestichezza con la grafica, la fotografia e gli strumenti Web.
Muhammad, 16 anni, è uno dei redattori in erba del blog ed è responsabile anche del settore fotografico, mentre Wassim, 14 anni, è ormai l’esperto di programmi di elaborazione grafica.
Sanaa e Hiba, insegnanti alla fondazione Kanafani e coadiuvate da Zeina, assistente, sono le responsabili della redazione e dei contenuti del blog.
L’intera squadra di Ayn al Helwe, accompagnata dai responsabili di Ctm, Elisso e fondazione Kanafani, ha compiuto un’inedita visita il 6 dicembre scorso all’ufficio dell’ANSA di Beirut dove, oltre a raccontare la propria esperienza in questa prima fase del progetto, ha incontrato la redazione per un approfondimento sulle tecniche di base di giornalismo d’agenzia.
“Grazie al blog – afferma Wassim parlando a Beirut con ANSAMed – raccontiamo la nostra vita nel campo e speriamo di poter entrare in contatto con i nostri coetanei in Italia e altrove”.
L’iniziativa sarà infatti promossa nel corso del 2012 da Ctm ed Elisso. Sanaa, educatrice non vedente e responsabile dell’insegnamento ai ragazzi non vedenti di tecniche per lavorare al computer grazie a strutture acquistate con i fondi del progetto Ctm-Elisso-Kanafani, ha dal canto suo sottolineato le enormi difficoltà degli abitanti del campo nell’accedere al Web: “l’elettricità viene erogata solo due ore al giorno, e sono poche le famiglie che possono permettersi l’acquisto di un computer… la connessione Internet è poi lenta e spesso interrotta”.
Il blog creato dai ragazzi, seguiti in questi mesi da diversi esperti giunti dall’Italia e costantemente coordinati da Ilaria Orlandi e da Francesca Bellini, è scritto in tre lingue (arabo, inglese e italiano), e sarà costantemente aggiornato anche dopo la fine del progetto da parte della redazione della fondazione Kanafani, proprio con l’obiettivo di mantenere un contatto diretto tra i tre campi del Libano coinvolti, e tra i ragazzi palestinesi, libanesi e italiani.(Scritto per ANSAMed il 12 dicembre 2011).
Si, sembra un bel progetto…per fortuna che ci sono loro, le “Organizzazioni non Governative”, a dare alcune possibilità a bambini che, strutturalmente, hanno un accesso limitato a qualunque altra risorsa.
Peccato che in nome di questo spirito missionario che -troppo volte, forse questo non è il caso- appiattisce i fruitori degli aiuti sul ruolo di vittime senza confrontarsi con quello che è IL problema, cioè quello delle condizioni di possibilità della loro esistenza, la cooperazione ne legittimi più spesso la marginalizzazione e ne riproduca l’esclusione.
Come è il caso di un altro progetto, a cui ha partecipato proprio n’Ong Ctm Lecce: la ristrutturazione dell’ospedale psichiatrico Al-Fanar -è sul loro sito, si può leggere, nonostante le informazioni a riguardo siano stranamente poche e poco eloquenti (si possono comunque trovare molti articoli, anche della stampa libanese, che ne parlano)- forse è meglio non pubblicizzarlo troppo?!
Come mai, mi chiedo, una Organizzazione Non Governativa italiana ha partecipato alla ristrutturazione di un ospedale psichiatrico, e per giunta privato, quando in Italia quel tipo di istituzioni sono illegali???!!!
Beh, saranno contenti quelli di Ctm per aver fatto fare affari d’oro ai proprietari di quell’ospedale sulla pelle di quelle persone internate, e di avere aiutato quei “poverini” dei malati di mente a passare la loro vita al suo interno. Ottimo lavoro.
Con questo non voglio dire che ogni progetto di cooperazione sia impossibile, soltanto che quando viene fatto, invece di badare a quante medaglie l’Ong e i suoi esponenti avranno la possibilità di appendersi alla camicia, sarebbe meglio persarlo proprio bene il progetto, nei suoi dettagli e nelle sue implicazioni profonde.
Il rischio (più che rischio, è anche un effetto politico in una certa misura voluto) è quello di riprodurre le relazioni estreme di dipendenza (di cui tra l’altro i palestinesi dei campi sono vittima più di molti altri) di gruppi sociali determinati, nei confronti di grandi e piccole organizzazioni internazionali, oltre che di Stati. Basta andare a vedere il progetto ROSS sul sito dell’Utl di Beirut, per rendersi conto di quanti soldi l’Italia abbia stanziato per progetti di cooperazione: peccato che più della metà -il capitale cioè stanziato nella ricostruzione delle infrastrutture libanesi a seguito dei bombardamenti israeliani del 2006, che tra l’altro per un principio intrinseco agli accordi può essere utilizzato dal governo libanese per pagare lavori di ricostruzione svolti soltanto da industrie italiane- il governo libanese debba retituirli, anche se a tassi di interesse ridotti.
Alla faccia delle “Organizzazioni non Governative”…(andatevi pure a vedere, nello scarnissimo e quanto mai oscuro bilancio di Ctm, da chi provenivano i finanziamenti. Dai, almeno non prendiamoci in giro). Nota positiva: almeno queste Ong diminuiranno di qualche migliaio il numero dei disoccupati in Italia, anche se a scapito di quei poverini del terzo mondo…
W il debito e viva tutti i nuovi missionari (è proprio il caso di dirlo, visto che qui i soldi li ha stanziati la Conferenza Episcopale Italiana. Chissà che non riescano a convertire anche qualche musulmano incivile)!
La domanda sull’intervento di Ctm circa l’ospedale psichiatrico non era una domanda retorica. Mi piacerebbe veramente avere una risposta da parte di chi, allora, ne era il responsabile.
Ciao Barbablu’,
sono Enrico Azzone, presidente di CTM Onlus.
Rispondo alla tua ultima domanda riguardo l’intervento presso l’ospedale psichiatrico Al Fanar.
Deduco dai tuoi commenti, ma corregimi se sbaglio, che non conosci il Libano, ne’ hai mai visitato quella struttura o conosciuto le persone che vi lavorano.
Ti assicuro che le persone con disabilita’ fisica ed ancor piu’ mentale, e le loro famiglie, non trovano alcun tipo di sostegno in termini di servizi o di aiuti economici, per affrontare tali complessi problemi.
Per tale ragione sono spesso strutture private, frutto del filantropismo e dell’impegno di alcuni, che provano a farsi carico di assistere queste persone.
La struttura, al momento in cui la cooperazione italiana e CTM hanno deciso di intervenire versava in condizione igienico-sanitarie problematiche, proprio per mancanza di risorse (nessuno dei degenti paga alcuna retta, e lo Stato libanese rimborsa, con ritardi di molti mesi, talvolta anni, somme molto basse ed insufficienti a garantire un servizio adeguato).
Per tale motivo e’ stata affrontata la ristrutturazione dell’intero edificio, compreso l’impianto elettrico ed idraulico ed il rifacimento dei bagni; la costruzione e l’equipaggiamento ex novo di un locale dedicato alla cucina e di un locale dedicato alla lavanderia; l’installazione di un sistema di riscaldamento, alimentato da pannelli solari; la costruzione di due serre per la produzione di ortaggi; la promozione e la realizzazione di terapie di supporto, come l’arte terapia, per migliorare lo stato psico-fisico e sociale dei pazienti.
Direzione dell’Ospedale, CTM e Cooperazione italiana hanno ritenuto che fosse necessario assicurare ai 251 pazienti, non solo adeguate terapie mediche, ma anche condizioni di vita e di socializzazione dignitose, tramite la cura degli spazi loro destinati ed attraverso attività sociali in grado di migliorarne lo stato psico-fisico e di riaccenderne la voglia di vivere.
Insomma, nessuno ha fatto affari d’oro ne’ sono state appuntate medaglie di sorta.
Inoltre tutto cio’ e’ stato realizzato in soli 7 mesi ed i risultati, tangibili, sono stati raccontati dal docufilm “Home” del regista libanese Philip Bajjaly, che spero avrai occasione di vedere per fugare i tuoi dubbi sull’opportunita’ di questo progetto.
Per quanto riguarda il programma ROSS, esso e’ totalmente a dono.
Ovviamente chi opera nel variegato (te lo concedo : ) mondo delle OnG non e’ un missionario, ma solo un professionista (manager, ingegnere, agronomo, infermiere, dottore, insegnante, ….) che al termine del progetto in cui e’ impiegato torna ad essere un disoccupato senza tutela alcuna.
Il termine “non governativo” non fa riferimento alla provenienza dei fondi, che sono in gran parte (nel caso di CTM) provenienti da donatori istituzionali, come il Ministero degli Esteri e l’Unione europea, piuttosto che fondazioni private e dal 5 per mille dei cittadini italiani o, nel caso del progetto CEI, dall’8 per mille della Chiesa cattolica.
Mi stupisco che giudichi il nostro bilancio “oscuro”: siamo tra i pochi a pubblicarlo (gli ultimi tre anni disponibili), con tanto di nota integrativa, che lo spiega per filo e per segno.
Come per tutti i progetti che CTM realizza, anche il progetto finanziato dalla CEI (solo attrezzature ed attivita’, nessun costo amministrativo o stipendi a personale italiano, per tua informazione), e’ realizzato con un approccio di piena condivisione con le esigenze della controparte locale, la Ghassan Kanafani Cultural Foundation, che opera nei campi palestinesi da quasi 40 anni, offrendo servizi socio-educativi di alto livello.
Per quanto riguarda la comunicazione sul progetto sull’ospedale psichiatrico Al Fanar, siamo molto contenti che molti in Libano ne abbiano parlato, poiche’ cio’ a contribuito a spezzare il silenzio sulle condizione del disabile mentale nel paese.
Sicuramente il nostro sito internet e’ poco aggiornato, ma la nostra OnG e’ piccola e con poche risorse umane e finanziarie; tuttavia cercheremo, spero presto, di rendere il sito piu’ fruibile e dotarlo di maggiori informazioni riguardo i progetti che realizziamo.
Spero, almeno in parte, di aver chiarito i tuoi dubbi.
Ti saluto
Enrico
Caro Enrico Azzone,
ti ringrazio veramente della tua risposta lunga ed esaustiva.
Ammetto di aver detto delle cose scorrette. Molte delle cose che dici, però, non fanno che aumentare i miei dubbi riguardo all’intervento nell’ospedale psichiatrico.
E’ vero che il progetto Ross è totalmente a dono. E’ altresì vero però che lo Stato Italiano, tramite la sua cooperazione, ha a sua disposizione vari altri strumenti, tipo i cosiddetti crediti di aiuto, che vengono utilizzati in modo specifico e prevedono un rimborso, sebbene a tassi agevolati
(Cfr: http://www.cooperazioneallosviluppo.esteri.it/pdgcs/italiano/speciali/libano/conferenzeaiuti.htm)
Riguardo al bilancio di Ctm, forse mi sono lasciato andare alla cattiveria. E’ comunque vero che le informazioni esposte nel vostro sito, nonostante la nota integrativa, a mio parere, dicono ben poco per come sono costruite. Non si capisce (o forse io non sono riuscito a capire) chi da quanto, per esempio.
Per quanto riguarda il progetto all’ospedale psichiatrico Al-Fanar:
non metto in dubbio che Ctm sia intervenuta con lo spirito più puro, e non lo dico per fare ironia.
Quando dicevo che la cooperazione, a volte, si tramuta in “missionarismo”, intendevo anche questo (la battuta sulla Cei l’ho fatta, e forse era fuori luogo. Il problema di chi fornisce i fondi rimane comunque, perché non è garanzia di indipendenza. Non tanto nelle dinamiche singole, quanto nella Cooperazione come processo globale e culturale. I legami di dipendenza delle Ong coi grandi finanziatori sono ben visibili). E, ripeto, sono molto serio.
A guardare bene quel documentario, Home, si ha la netta percezione che quello sia un vero manicomio.
Allora, parecchie domande sorgono. Alcune implicano la struttura stessa, le responsabilità di chi la gestisce, e ovviamente, come dici tu, il contesto in cui si colloca.
Ho visto il film “Home” di cui parli -ha partecipato anche al festival di Roma-, e nonostante le intenzioni del regista, emergono parecchie contraddizioni. (il film è visibile proprio a partire dal sito dell’ospedale http://www.newstime.com/popup_video.php?id=74)
E’ ovvio, ad esempio, che la direttrice del luogo ponga la faccenda in termini morali: “noi siamo qui per fare del bene e occuparci di queste povere persone”. Sta di fatto però, che nonostante le sue buone intenzioni, la gente vive lì dentro rinchiusa e non può uscire. E, gli internati stessi, lo dicono. Si lamentano dall’inizio alla fine delle condizioni in cui sono; anzi, delle condizioni in cui li fanno vivere.
Addirittura, in una scena, in arabo, si sentono gli internati che imprecano proprio contro “quella donnaccia”. E non credo si riferissero a una donna qualsiasi. E con questo non voglio dire che la donna in questione, la direttrice, sia una poco di buono. So, però, che gli internati vorrebbero uscire, e invece sono rinchiusi lì. E di questo biasimano, forse in modo ingiusto -in quanto parziale-, la direttrice.
Perché dico ingiusto in quanto parziale? perché sicuramente le condizioni in Libano non sono delle migliori. Ma la direttrice di quel dimenticatoio ha le sue responsabilità nella gestione. In Libano infatti esistono altri ospedali psichiatrici, Al-Fanar non è l’unico. E come mai quelli “funzionano”? (Se mai un manicomio può “funzionare” in senso terapeutico e non meramente repressivo)
Prevengo: non mi si venga a dire che funzionano in quanto sono legati a dinamiche confessionali, perché il punto è questo soltanto in parte.
E’ vero che la legge libanese è ricalcata sulla legge francese del 1838, che priva gli internati in manicomio dei diritti civili e li condanna in una relazione di tutela: qualcun altro decide per loro.
E’ altresì vero che chi può decidere del loro rilascio però è anche la direttrice stessa: se l’internato non accetta il trattamento, almento in teoria la direzione è legittimata a rilasciare la persona.
Questo non avviene, come appare evidentemente nel video, nel caso di Al-Fanar. Come mai?
Il sistema di finanziamento degli ospedali psichiatrici libanesi (che appartengono alla “seconda categoria” contrattuale del Ministero della Sanità) è assai complesso e mal funzionante.
Esso funziona sulla base di un finanziamento per paziente, e su un tetto massimo. Ecco perché, anche, chi amministra quegli ospedali ha interesse a riempirli di gente.
E’ altresì vero che i finanziamenti stanziati dal ministero difficilemente bastano a far vivere le persone in condizioni dignitose. Ma questo non giustifica il cattivo stato della struttura, e il mangiare schifoso che si vede nel film (ripeto, altri ospedali non sono così). Non giustifica le persone seminude, e non giustifica nemmeno le ciabatte o i piedi nudi, d’inverno come d’estate (nel film si vede bene). Insomma, tutto questo non giustifica le condizioni orribili di queste persone abbandonate all’interno di quel Lager.
Dunque, questione che sembrerà faziosa ma è utile nella sua semplicità: la direttrice sarà sicuramente una buon’anima, ma i soldi per vivere sulle spalle di quelle persone se li fa lo stesso. E intanto gli internati vivono pietosamente e senza prospettive.
Veniamo ora all’intervento di Ctm.
L’ospedale psichiatrico inteso come istituzione totale (e quello del film “Home”, Al-Fanar, lo è in toto) non ha effetti terapeutici. Semmai il contrario. E non lo dico io.
Le attività di riabilitazione di cui parli servono a poco, in regime di internamento. Non soltanto perché l’uscita è impossibile per l’internato, ma anche perché egli è sottomesso alla violenza quotidiana dell’istituzione. Anche solo per il fatto di non poter decidere se avere o meno un comodino (e nel film si vede benissimo: le sbarre alle finestre, i tavoli agganciati a terra, nessun oggetto “proprio” all’internato, niente di niente).
Ed è visibilissima, nel film, la relazione di autorità nei confronti della direttrice quando parla con gli internati: facci caso come abbassano lo sguardo.
Dunque, attività di riabilitazione in “stati di eccezione” non funzionano.
Questo è il primo punto.
E’ vero che probabilmente dare un letto a quei poveracci è già qualcosa.
Ma quando dico “missionari”, intendo proprio quello spirito “umanitario” e pietista che non bada alle condizioni di possibilità della vita di quelle persone. Quando si ha a che fare con una struttura del genere, bisogna intervenire in modo complesso, profondo, a più livelli, e non in modo acritico impregnato di filantropismo.
Un intervento limitato alla sfera “terpaeutica” non serve a nulla, e può fare anche dei danni.
Non si può intervenire solo sulla base del fatto che sono dei “poverini”. Questo lo sanno anche loro, gli internati. E sarebbero anche ben felici di poter dire: no, non lo siamo. Ma non possono dirlo, non possono contrastare la rappresentazione che si vuole dare di loro. E sai perché? perché sono rinchiusi all’interno di quelle quattro fetide mura e sono costantemente ricattabili.
Durante tutto il film “Home” l’internamento viene imputato alle famiglie. Sono loro, continuano a ripetere le amministratrici, che abbandonano gli internati al suo interno.
Ma questa è una visione mistificante, che rigetta nel “culturale” (la visione che hanno le famiglie della malattia, “è vergogna” etc) un sistema complesso produttore di marginalità sociale e produttore del malato mentale in quanto inguaribile. Un sistema, appunto, di cui l’internamento è il fulcro, di cui il manicomio stesso costituisce il perno. (Cfr. Foucault, Basaglia, Goffman, Castel…decine di autori hanno parlato di questo. E non li cito per fare l’intellettuale e il superiore, ma per augurarmi che la prossima volta ci si informi un po’ prima di intervenire in un sistema così complesso)
Il secondo punto è legato al primo: come può pensare -al di la’ di tutte le giustificazioni “umanitarie”, che appunto rimangono solo tali- Ctm di poter intervenire in un posto del genere, andando contro il buon senso e contro la legge italiana?
Non si può agire così, semplicemente richiamandosi all’umanitario e all’ “emergenza”, o alle condizioni particolari.
Basaglia da noi ha mostrato già tempo fa’ la necessità della chiusura del manicomio. Anche per tutte le ragioni che ho elencato.
Dopo la tua risposta sono ancora più convinto dello spirito missionario. Non in quanto legato alla chiesa, o perché le Ong debbano portare la buona novella o il vangelo o affini.
Ma perché ridurre la sofferenza delle persone ai fattori contingenti senza guardare quali sono le dinamiche complesse che ne stanno alla base, significa intervenire a un livello superficiale riproducendo lo stato di fatto.
Cosa sarà di Al-Fanar oggi?
Sono sicuro che le persone internate sono ancora lì e non possono uscire, e chi amministra quel posto è lì anche lui -e per quanto sia buono di spirito, la verità è che tiene qualche centinaio di malati in condizioni pietose e intanto con quei soldi ci si compra la macchina nuova e ci si paga il ristorante.
Mi scuso con te se ho utilizzato toni accesi. Il discorso è complesso, e spero di avere chiarificato il mio punto di vista.
Ti ringrazio ancora della tua risposta così puntuale. Spero che anche la mia, insieme alle rettifiche necessarie apportate al mio primo post, possa essere stata per te convincente; spero che la mia opinione riguardo al lavoro ad Al-Fanar sia stata ampiamente giustificata.
Un saluto,
Barbablù
http://www.lavoroculturale.org/spip.php?article165
Il punto 2 e 3 di questo ottimo articolo dovrebbero fare chiarezza su ciò che intendo come utilizzo di una retorica umanitaria, missionaria, nel grande mondo delle Ong.
Retorica ravvisabile a pieno all’interno del film “Home”. Dietro questa retorica vi è altro. Prima di tutto, una gestione politica del “male minore”; ma nel caso di Al-Fanar anche una gestione cruda della vita degli internati all’interno dell’istituzione.
Grazie ancora ad Enrico Azzone, e a Sirialibano per gli spazi che ci permette di riempire.
Barbablù
Eminente ed illuminato Barablù,
la passione e la rabbia delle tue parole, sebbene purtroppo molto confuse e in gran parte volutamente provocatorie senza il sostegno necessario di argomenti corretti e incontestabili, mi ha molto colpito. Mi hanno ricordato i tanti polemisti italiani (quella si che è una professione per guadagnare medaglie e fare affari d’oro) che, sul modello dei vecchietti del bus o del tram, urlano quanto nulla funzioni e quanto faccia tutto schifo, senza addurre motivazioni, ma confidando nel sostegno del popolo.
Premetto che personalmente credo ci sia molto poco da difendere nel sistema attuale di gestione degli aiuti e di programmazione dei progetti di sviluppo a tutti i livelli in Italia. Ci sarebbe tantissimo da modificare e riformare in chiave strategica e di effettività degli interventi stessi, ma mi pare di capire che non è questo ciò di cui si parla.
Delle due l’una, o sei stato tanti anni in Libano chiuso nel ministero della Sanità a studiarti le leggi del periodo francese (tanto di cappello, ma in effetti potevi anche uscire qualche volta per capirci di più), oppure sei stato poco, hai visto un unico progetto e da quello hai magicamente capito quanto siano cialtroni i cooperanti e tutto quello che ci gira attorno (wow, che intutio!). Ciò che mi stupisce di più è il lanciarsi in una polemica gratuita, a commento di un progetto che nulla ha a che fare con l’intervento all’ospedale psichiatrico Al-Fanar, tirando in ballo anche elementi totalmente errati (ti sei corretto, ma se sapevi già di dire qualcosa di falso, che senso aveva scriverlo se non provocare e attaccare per il semplice gusto di farlo?) come il fatto che il programma di emergenza ROSS prevedesse un rimborso da parte del governo libanese, o come il fatto che qualsiasi intervento ROSS fosse vincolato alla selezione di imprese italiane (altro elemento che non trova riscontro). Con l’elenco infinito di elementi e punti negativi, critici, dannosi che hanno fatto parte non solo del programma ROSS ma anche in generale della Cooperazione Italiana in tutto il mondo, puntare su questi argomenti inesistenti rende la tua posizione decisamente non credibile.
Cerco di organizzare i miei commenti sperando di riuscire ad essere chiaro.
1. L’assenza di una forma di rimborso, prevista invece dai crediti di aiuto, è un elemento piuttosto fondante per argomentare due elementi importanti: se parliamo di EMERGENZA (prime necessità, accesso a servizi di base, soluzioni anche temporanee ma che possano per un breve periodo permettere a un gruppo sociale di poter vivere in maniera dignitosa), come nel caso del programma ROSS e dunque della ricostruzione post-bellica, certo si dovrebbe urlare allo scandalo se poi si chiedesse un rimborso al paese destinatario; abbiamo appurato che non è questo il caso. Se parliamo di SVILUPPO (concetto sul quale potremmo dilungarci fino a domattina senza trovarne un significato univoco), possiamo essere d’accordo che questo dovrebbe puntare ad interventi strutturali, che possono andare dall’introduzione di riforme nazionali/istituzionali a processi di sostegno a cambiamenti anche socio-culturali di medio e lungo periodo su qualsiasi settore nazionale, il cui obiettivo finale dovrebbe comprendere sostenibilità e soprattutto autonomia nella gestione dei processi di cambiamento innescati.
Quando ti emozioni così tanto nell’accusare il governo italiano di avere uno strumento finanziario per i progetti di sviluppo che prevede la restituzione di parte dei fondi (lo fanno anche altri governi che magari reputi più civili), e poi allo stesso tempo accusi ong, ministero italiano, l’universo mondo, di alimentare la dipendenza da fondi e politiche di finanziatori internazionali senza scrupoli, non ti sembra di trovarci qualcosa di cacofonico? se lavoro con un paese terzo in un intervento di sviluppo per poterlo rafforzare, credi che dargli soldi a fondo perduto sia culturalmente sano, soprattutto se devo fare in modo da non creare una dipendenza dai miei fondi? o credi che la responsabilizzazione del destinatario che indica lui stesso il settore in cui richiede l’intervento non debba passare anche dalla gestione finanziaria sul lungo periodo in forma autonoma ed indipendente? l’obiettivo del rafforzamento di un paese è anche legato al metterlo in condizione di non dover più chiedere sostegno finanziario, mentre sapere che può chiedere soldi sempre, senza nessun vincolo, non ha alcun senso se parliamo di sviluppo.
2. Un progetto di emergenza, per sua natura, si occupa di risolvere problemi di prima necessità legati ai cosiddetti bisogni di base. Per questo vengono programmati come interventi puntuali, e non strutturali, su un breve periodo (massimo 12 mesi), e con un fondo il cui ammontare non risulta particolarmente alto. Il progetto per il manicomio di Al-Fanar è stato scritto ed implementato in quest’ottica, che di certo non prevede la riforma del sistema sanitario libanese. Si può criticare il fatto che il governo italiano non abbia pensato ad un progetto di riforma di tutto il sistema legato alla psichiatria ed agli ospedali connessi (magari il governo libanese non lo ha chiesto e di solito non si impone ad un governo al sua agenda), si può discutere sull’utilità o meno degli interventi di terapia, si può anche polemizzare sul fatto che queste persone non vengono lasciate libere di lasciare il centro (certo, la società libanese li integrerebbe immediatamente, assolutamente), ma criticare un intervento con le caratteristiche di progetto di emergenza perchè non ha tenuto conto dei massimi sistemi e non ha modificato la cultura e le leggi vigenti in Libano è solo polemica cieca.
3. Un accenno al fatto che si è fatto un intervento in una struttura che in Italia sarebbe illegale. In effetti nella tua ottica bisognerebbe agire solo laddove si riconoscono destinatari e soggetti giuridici conformi alle norme del belpaese. Quindi proponi di eliminare dagli interventi di emergenza (e non parlo solo di quelli italiani) tutti i paesi dove vige un regime dittatoriale e fascista, i paesi non riconosciuti tali a livello internazionale (la Palestina che tanto ami), per finire a qualcosa che conosciamo più da vicino come qualsiasi progetto in zone controllate da Hezbollah (nella lista nera delle organizzazioni terroristiche). Eticamente e moralmente giusto, non dobbiamo intervenire se per il nostro sistema quel soggetto è illegale; dunque…o tutti si adeguano alle normative italiane, oppure chiudiamo questa cooperazione e tutte le ong italiane, inutili se non dannose.
4. Affari d’oro (fornisci esempi, o siamo sempre sullo sparare alla cieca, tanto qualcuno lo prendo?). In effetti, a parte le uscite di Gino Strada al Festival Bar per raccattare fondi (mi disgusta solo il ripensarci), non mi sembra di vedere sui media e tra l’opinione pubblica tutto questo esaltare cooperanti e ong. In effetti è strano, mi sembra di ricordare di più i papa boys, piuttosto che i blackblock, o la Protezione Civile Italiana, dipinti come i veri missionari (nel bene e nel male) che hanno un’idea precisa di cosa sia il bene e lo mostrano ovunque in ogni modo possibile, soddisfando la morbosa necessità popolare di individuare il bene e il male. Il cooperante è semplicemente, come detto benissimo da Enrico Azzone, un lavoratore facente parte di una categoria che prevede come le altre una formazione scolastica, un titolo universitario, e poi, quando possibile, un contratto rispetto ad una normale offerta di lavoro. Non c’è nessuno spirito missionario insito in questo percorso, seppure concedo che questo non sia l’unico percorso e che esistono purtroppo fronde di missionari che non vedono l’ora di fare un bel progetto di alfabetizzazione condizionato però anche alla costruzione di una bella chiesetta (altro che restituzione dei fondi!!!!!).
Stipendi d’oro nell’ambito delle ong? hai e dai informazioni totalmente sbagliate, poi se hai prove o testimonianze dirette in questo spazio credo saranno ben accolte.
Medaglie sulla camicia? come detto già, se è male fare il proprio mestiere allora è un problema che può riguardare chiunque, basta dire che gli avocati rubano, che gli insegnanti e i giornalisti sono ignoranti, e che gli ingegneri non danno l’esame di statica. Aldilà di questo siamo d’accordo che c’è chi lavora con passione e coscienza, e chi lavora come se gli fosse capitato quel mestiere, però prendere in giro solo i cooperanti mi sembra anche in questo caso incattivirsi senza costrutto.
Meno disoccupati? hai idea di quanto il governo italiano impegni in finanziaria per la cooperazione? o dei tagli che negli ultimi 3 anni hanno di fatto ferito a morte questo settore? o dello stipendio medio di un operatore espatriato di ong? o dell’attuale assenza totale di offerte di lavoro in quest’ambito? o del fatto che il sistema universitario negli ultimi 10 anni abbia aperto corsi di laurea in cooperazione allo sviluppo attraendo decine di migliaia di studenti, e che allo stesso tempo l’impegno del Governo Italiano si sia ridotto di più del 90% dal 2008 a oggi?
Lavoro nell’ambito dello sviluppo. Non sono esperto di psicologia (a quanto pare tu lo sei. in bocca al lupo, qualsiasi attività tu faccia) non lavoro per una ong e sinceramente sono l’ultimo a difendere le politiche, le scelte ed anche i progetti e le linee strategiche della cooperazione italiana, delle ong e di tanti altri soggetti, seppure con dei distinguo. Non sono un missionario e non credo che chi fa questo mestiere pensi di sacrificarsi o di fare del bene, ma semplicemente di fare il proprio mestiere, cercando di non scendere a compromessi e di avere sempre una visione ed un metodo alla base del proprio operato, una etica del lavoro che tutti in teoria dovrebbero avere.
Penso che nella tua critica ci sia molto ordine da fare e soprattutto molte più informazioni e testimonianze da raccogliere, prima addirittura di fare della banale ironia. E questo lo dico senza saccenza, ma solo come una persona che conosce quest’ambito.
Grazie, e stammi bene