Una sculacciata per non cambiar niente

(di Lorenzo Trombetta, Limesonline). Un missile balistico sparato dalla base n.155 di Qutayfa, a nord di Damasco, ha ieri colpito un complesso di edifici residenziali ad Aleppo, a Hayy al Firdaws (quartiere del Paradiso) uccidendo, secondo testimonianze verificate da fonti indipendenti, una ventina di persone identificate. Nel vicino ospedale di Zarzur ci sono una decina di corpi irriconoscibili appartenenti ad altre vittime del bombardamento.

Ad Aleppo e in molte altre località della Siria si continua a morire ogni giorno
 sotto i colpi di armi micidiali dette convenzionali. Secondo un bilancio non aggiornato dell’Onu e mai contestato dalla Russia né dalle autorità siriane, dal marzo 2011 nel paese ormai in guerra sono state uccise circa 100 mila persone.

Eppure adesso gli Stati Uniti e i loro alleati europei parlano per la prima volta
 e in modo serio di condurre un’azione militare contro obiettivi del regime della famiglia Asad, al potere da quasi mezzo secolo. Perché adesso?

È forse una questione umanitaria?
 Da molto tempo i siriani chiedono che qualcuno li protegga. Ben prima che si registrassero massacri con non ancora meglio precisate sostanze tossiche. Il 16 agosto, una cinquantina di persone, tra cui donne e bambini, sono state uccise nel sonno da un altro missile balistico piombato sulle loro palazzine a Bustan al Qasr, sempre ad Aleppo.

Vi sono foto e video dell’effetto dell’attacco e liste delle generalità delle vittime,
eppure nessun giornale o sito web ha dedicato l’apertura alla loro tragedia. Nessun analista militare è stato invitato in tv a spiegare quanto sia distruttivo l’impatto di uno Scud sui comodini di legno di una camera da letto di una casa di Aleppo. E nessuna cancelleria occidentale ha stravolto la sua agenda di riunioni per vagliare la possibilità di agire dopo il massacro di Bustan al Qasr o quello più recente di Hayy al Firdaws.

Gli Stati Uniti parlano ora di intervento perché è forse cambiato il quadro strategico? Perché sono cambiati i loro interessi e i loro calcoli nella regione? No. Nulla è mutato da questo punto di vista. Per Washington come per il suo alleato israeliano, Asad è ancora meno peggio delle frange più radicali della rivolta siriana, sempre più infiltrate di criminali terroristi al soldo di paesi del Golfo – alleati di Washington – e di altri attori regionali, interessati non certo alla caduta del regime quanto al prolungarsi del conflitto.

Ma forse – ci si chiede – gli Usa e i loro alleati riscaldano i motori delle loro macchine da guerra perché sono state usate armi chimiche il 21 agosto? No, perché è ancora tutto da dimostrare a livello scientifico e internazionale. Certo, chi conosce la storia siriana degli ultimi decenni sa con certezza che chi è al potere a Damasco non ha mai avuto scrupoli nel ricorrere a ogni mezzo a disposizione per difendere il proprio potere. Formalmente, lo studio della cronologia degli eventi degli ultimi due anni e mezzo e la conoscenza del contesto storico siriano possono rafforzare un sospetto ma non rappresentano una risposta definitiva su quanto accaduto il 21 agosto.

Di certo, un alto numero di persone tra cui donne e bambini
 è morto in quella notte di una settimana fa. Con loro anche numerose pecore, uccelli, gatti… e persino almeno un cane. Sui loro corpi non ci sono segni di ferite di armi da taglio o da fuoco. Sono tutti morti annegati? Oppure colpiti da un infarto collettivo? A questa domanda stanno cercando di rispondere una ventina di ispettori inviati dall’Onu con un mandato approvato anche dalla Russia e mai contestato dall’Iran, i due principali alleati degli Asad.

Ma il lavoro della squadra guidata dallo svedese Ake Sellstrom è pieno di ostacoli.
Damasco – che afferma di non avere nulla da nascondere – ha prima fatto attendere ben 4 mesi per accettare l’idea della missione (il regime chiedeva che l’Onu indagasse solo sull’episodio di Khan al Asal e non su quelli denunciati da attivisti). Poi ha concesso agli osservatori di indagare solo su 3 località – tra cui Khan al Asal – dove in passato il regime e i ribelli si sono accusati a vicenda di aver fatto uso di armi proibite.

Quindi, complici le lungaggini burocratiche dell’Onu,
 Asad ha fatto sì che passassero 5 giorni dal presunto attacco chimico per concedere i permessi agli esperti internazionali di recarsi sui luoghi a sud e a est di Damasco dove si sono registrati quei misteriosi decessi la settimana scorsa. Mentre i giorni passavano, l’aviazione e l’artiglieria degli Asad hanno bombardato a tappeto, con armi convenzionali, i sobborghi colpiti già il 21 agosto, contribuendo alla cancellazione di eventuali tracce dell’utilizzo di gas tossici.

Quando gli ispettori sono riusciti finalmente ad avvicinarsi a Muaddamiya,
 il primo dei luoghi incriminati, il convoglio dell’Onu è stato bersaglio di colpi di arma da fuoco sparati da non meglio precisati cecchini. I testimoni locali – gente di Muaddamiya, ha indicato con precisione da dove venivano i colpi (dal posto di blocco delle mukhabarat askariyya e dalle lijan shaabiya, le milizie del regime all’ingresso del sobborgo) mentre il regime ha puntato il dito contro “bande di terroristi”. Se a Muaddamiya ci sono i terroristi, quali medici e attivisti hanno incontrato gli ispettori Onu che sono poi riusciti a penetrare nella martoriata cittadina?

In ogni caso è evidente che il contesto in cui si trovano a operare gli osservatori Onu è quanto mai difficile. Ed è improbabile che gli esperti possano giungere a conclusioni scientificamente provate in tempi così brevi da soddisfare la fretta della Casa Bianca. Alcuni campioni prelevati a Muaddamiya, o che saranno prelevati nei giorni a venire, dovranno essere analizzati in laboratori all’estero e ciò richiederà tempo. Tra l’altro, la missione internazionale in Siria non è incaricata di individuare chi abbia usato eventuali armi proibite, ma soltanto se queste siano state realmente utilizzate.

Come fa dunque il segretario di Stato americano John Kerry a dire di avere “pochi dubbi” che siano armi chimiche quelle usate il 21 agosto? O è sì o e no. Il dubbio, in questi casi, lo si lascia a casa. E com’è possibile che il minacciato attacco può essere deciso “nell’arco di 48 ore”? Se lo si fa per “punire i responsabili” del bombardamento nella regione di Damasco, bisognerebbe prima accertare ufficialmente l’uso di gas tossici e individuare da dove e da chi i razzi sono stati sparati. Già nei mesi scorsi ci sono state denunce di bombardamenti chimici in Siria, eppure mai si è arrivati così vicini a parlare di “azione militare straniera”. Perché adesso?

Perché la questione è un’altra: non è umanitaria e non è strategica.
 Ne è legata direttamente all’utilizzo di armi proibite. La reazione americana e dei suoi alleati è legata all’impatto emotivo causato dalla diffusione mediatica delle immagini del 21 agosto. Un anno fa Obama aveva retoricamente tracciato la “linea rossa”, identificandola proprio con il ricorso da parte del regime agli arsenali chimici.

Da allora però il presidente americano e la sua linea rossa immaginaria
 sono stati ritratti in mille vignette. La credibilità di Obama su questa vicenda – e in generale sulla sua politica in Medio Oriente – è pressoché nulla. Quando una settimana fa sono cominciati a circolare i filmati amatoriali dalla regione di Damasco, alla Casa Bianca devono aver pensato che in silenzio e con le mani incrociate non si può più restare.

“Bisogna fare qualcosa”. Ma cosa, visto che le considerazioni strategiche
 (“meglio Asad che i jihadisti”, come se in Siria ci fossero soltanto queste due realtà) sono rimaste immutate? L’unica via da percorrere sembra essere un atto dimostrativo: una sculacciata al regime siriano. Senza cambiare gli equilibri di forza sul terreno, perché questo infastidirebbe troppo l’alleato israeliano, i russi e gli iraniani (e gli Hezbollah potrebbero agire con temibili rappresaglie).

Il ministro degli Esteri russo Sergey Lavrov lo ha detto chiaramente:
 non ci faremo trascinare in guerra. Il responsabile della diplomazia di Mosca ha sì ribadito il sostegno agli Asad e ha criticato aspramente le ovvie ambiguità della posizione americana circa l’uso di armi chimiche il 21 agosto, ma ha al tempo stesso fatto capire che la Federazione Russa lascerà che gli occidentali compiano il gesto dimostrativo contro Damasco.

Anche Israele e i suoi nemici regionali, l’Iran e gli Hezbollah, al di là della solita retorica celodurista, hanno di fatto dato il loro via libera a un’azione limitata, che non andrà contro i loro interessi. Nessuno degli attori regionali vuole adesso una guerra su larga scala.

Solo qualche giorno fa, alcuni razzi sono stati sparati dal sud del Libano contro Israele.
 Lo Stato ebraico si è ben guardato dall’accusare Hezbollah: ha invece puntato il dito contro “il jihad internazionale”. All’indomani, caccia israeliani hanno bombardato una base militare ormai in disuso di una milizia palestinese filo-Asad – il Fronte popolare Comando generale – a sud di Beirut.

Uno scenario che potenzialmente poteva servire da casus belli.
 Eppure nessuna parte coinvolta si è mostrata interessata al conflitto. Il Fronte popolare di Ahmad Jibril ha persino negato ogni responsabilità nel lancio di razzi contro Israele e i media di Hezbollah non hanno più accennato all’incidente. In quel caso Israele non poteva rimanere in silenzio. Ma come già accaduto in passato, ha preferito limitarsi a un’azione dimostrativa, rispettando così l’implicito accordo con Hezbollah di farsi del male a vicenda solo in un determinato contesto interno e regionale.

Se si concretizzerà dunque l'”azione limitata” guidata dagli Stati Uniti,
 questa non darà nessuna spallata agli Asad. Anzi, in un contesto di “aggressione imperialista”, si rafforzerà il consenso di cui il regime gode da una parte della popolazione e di certi ambienti della comunità internazionale e delle opinioni pubbliche di mezzo mondo.

E le opposizioni siriane si spaccheranno ulteriormente.
 Quelle frange rimaste in patria, solo in parte tollerate dal regime ma che si sono sempre opposte a ogni intervento straniero, si allontaneranno ancor di più da quelle in esilio, che invece chiedono da tempo a gran voce un sostegno esterno alla causa dei ribelli sul terreno.

Se tutto andrà secondo i piani americani e dei suoi alleati
 e se il blitz non si trasformerà tragicamente in un pasticcio dalle conseguenze imprevedibili, la sculacciata al regime servirà a Obama per recuperare credibilità internazionale (“Avete visto? Avevamo promesso di colpire in caso di uso di armi chimiche e abbiamo colpito”) e per poter tornare indisturbato a occuparsi di altri dossier.

Col placet di Washington, i paesi del Golfo proseguiranno con i finanziamenti a quei gruppi criminali che ostacolano di fatto la rivolta dei siriani contro gli Asad (a Riyad e Doha una Siria libera e pluralista fa più paura che il radicalizzarsi del conflitto). Gli altri attori regionali continueranno a farsi la guerra usando, oltre all’Iraq e al Libano, il territorio siriano. E i civili siriani continueranno a morire sotto i colpi di armi più o meno “convenzionali”.

 Solo allora, Stati Uniti e Russia riprenderanno a parlare di una “conferenza di pace”, magari da tenersi a Ginevra. Ma tanto, a quell’epoca, la Siria sarà di nuovo scomparsa dalle prime pagine dei giornali e dalle aperture di tg e portali di notizie.(Limesonline, 27 agosto 2013).