Il viaggio prosegue con la seconda puntata del diario di bordo: uno spaccato odierno dei quartieri antichi di Damasco, i suq e le moschee.
Sabato, 27 agosto 2011, sera.
Scesi dal taxi nel quartiere a maggioranza cristiana di Qassaa, davanti a delle colorate bancarelle di fichi gialli e viola, fichi d’india e mandorle verdi, percorriamo il breve tratto di strada che, attraversando Bab Tuma, conduce verso l’hotel Beit Zafran, sito nella città intra muros.
Tanto basta per rendermi conto di come sia facile illudersi che non vi sia mai stato, nel Paese, un 15 marzo 2011, data che segna l’avvio dei moti di protesta e delle repressioni in Siria. Nulla pare suggerirmi che appena ieri, nell’ennesimo venerdì di protesta, nel sobborgo di Kafar Suse si siano verificati disordini e, stando al video pubblicato dall’ emittente panaraba al-Jazeera, il vecchio imam della moschea al-Rifai sia stato ferito.
Colore e movimento in piazza Bab Tuma: venditori ambulanti, clamore del traffico disordinato, persone affaccendate negli acquisti e nei preparativi per il Fitr.
Arrivati all’hotel riceviamo una calorosissima accoglienza, di sorrisi aperti e succo di lampone. Ci informano, alla reception, che siamo tra i pochissimi turisti che visitano la città, per via dei timori (immotivati?) suscitati dai media internazionali. Solo due delle splendide dodici stanze di quella che era un’antica casa damascena sono occupate. Una è la nostra, che si affaccia sul campanile della vicinissima chiesa caldea e su una vecchia scuola, i cui banchi oggi sono vuoti, perché gli alunni sono stati trasferiti in un altro istituto.
Poggiate le valige schizziamo fuori per percorrere a ritroso la strada e ritornare a Qassaa, dove visitiamo una famiglia di vecchi amici cristiani. Mi si fa notare come “Hoon bi Sham, ma fi shy (qui, a Damasco, non c’è nulla)”. Ma si smette di negare che invece a Daraa, Homs, Hama, Baniyas, Dayr az-Zor, nel Qamishly non stia accadendo nulla. Si parla, davanti al caffè al cardamomo, e io immagino che le agenzie di stampa stiano, contemporaneamente, inviando notizie di disordini, sparatorie, vittime tra i manifestanti.
Uno dei parenti, trasferitosi in Europa, dissente dall’opinione generale che descrive una Damasco serena: “Oggi non c’è nulla, è vero. Ma domani?”.
Lasciamo la casa. Di nuovo Qassaa, dove le strade sono congestionate dal traffico pedonale di cristiani e musulmani. Le donne velate con uno hijab leggero e colorato, o coperte da un niqab nero che scopre solo gli occhi si affaccendano negli acquisti: dai dolci agli abiti più eleganti, mentre per le vie i carretti di frutta, caramelle zuccherate e multicolore, le pannocchie bollite contribuiscono all’immagine di una città vecchia che vive la vigilia di une delle due maggiori festività del calendario islamico.
Come sempre. Eppure nella città vecchia, negli anni passati non vi erano così tante bandiere a bande rosse, bianche e nere con le due stelline a cinque punti (che simboleggiano il periodo in cui la Siria si unì all’Egitto nella R.A.U., dal 1958 al 1961). Bandiere che affiancano le immagini del Presidente che si sono miracolosamente moltiplicate, e invadono il paesaggio urbano.
Percorriamo l’intero suq al-Keimariyye che conduce verso la grande moschea Omayyade: le bici cariche di pane arabo o verdure che ti vengono addosso; le decorazioni; le bancarelle ambulanti che offrono spremute di lampone e melograno (asir tut w rummane), i dolci a base di datteri e semi di sesamo, lucenti di miele e sciroppo, sui carretti di ferro trasportati a mano; le vetrine dei negozi riversano il loro contenuto di colore e sfarzo sulla strada antica, dove, tra le altre cose, si può calpestare la bandiera di Israele.
Se le bandiere si fanno più frequenti, non v’è traccia di turisti. A parte pochi, sparuti, come me e il mio amico, che si incrociano, non v’è traccia dei gruppi turistici francesi, italiani, tedeschi, numerosi che si divincolavano, in altri tempi, tra le stoffe, tra gli oggetti d’artigianato in legno e madreperla, tra le spezie e i venditori di saj (tipico pane locale, sottilissimo, farcito con del formaggio, o carne, verdure a scelta) e succhi di frutta.
Più bandiere ed effigi di Bashar al-Asad, senza turisti.
Il forno del Keimariyye continua a produrre il pane soffice coi semi neri di sesamo, ma non si fa più la fila per averne un pezzo, al prezzo di cinque lire.
Il celeberrimo caffè al-Nawfara, che s’affaccia sulle gradinate antistanti la moschea Omayyade, non ospita più gli stranieri che tendevano le orecchie al rapsodo locale e fumavano le pipe ad acqua (narghile) di mela, fragola o melone.
Superata la moschea Omayyade ci immettiamo nel suq al-Hamidiyye: coperto dal tetto nero traforato decenni fa dall’aviazione francese, pullula di vita, suoni, profumi, giocattoli esposti accanto ai reggiseni, stoffe colorate vicine ai dolci e agli oggetti per la casa. Le vetrine dei negozi fanno a gare per ostentare la bellezza delle loro merci, mentre gli ambulanti ti richiamano a gran voce, i bambini ti sparano addosso nuvole di bolle di sapone, e il qahwaji, dagli abiti tradizionali, che offre il caffè (qahwa), inchinandosi sulla schiena dove poggia l’enorme caraffa decorata.
Usciamo dal suq, e ancora si susseguono le bancarelle e i bambini che mendicano sino alla statua di Saladino. Proseguendo verso piazza al-Merje, nota per i negozi che espongono piramidi di filamentosi dolci di miele, pistacchio e dattero, siamo diretti verso i bancomat. Pur avendoci avvisato dall’albergo circa l’impossibilità di prelevare in valuta locale, vogliamo fare dei tentativi.
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Rientriamo nella città vecchia, passando però dalla fortezza (qalaat) dove scopriamo si terrà un festival folcloristico notturno, e costeggiamo il fiume Barada, secco e putrido, verso l’orto botanico; raggiungiamo, così, la moschea sciita di Sayyida Ruqayya, figlia dell’illustre martire Husayn, nipote di Muhammad.
All’interno della moschea, nel grande cortile con la fontana, uomini e donne si mescolano ai bambini presi dai loro giochi, che fanno le capriole sui tappeti. Tutto è pervaso da un’atmosfera di totale rilassatezza, precedente l’iftar. Le bambine con i loro vaporosi abiti a balze mangiano le caramelle che vengono offerte da aspiranti imam, giovanissimi e in tuniche candide; gli adulti chiacchierano seduti sui pavimenti, all’esterno, o pregano e si lamentano in gesti reiterati di devozione e immenso cordoglio verso il mausoleo della martire sciita, invaso dai doni, dai profumi, dalle bambole.
Si prega, si recita il Corano, si lanciano caramelle a pioggia.
Tramontato il sole, ci si abbandona al piacere dell’iftar, e si rompe la giornata di digiuno iniziata all’alba. Non ho nessun timore, tuttavia di non trovare un tavolo libero in uno dei più rinomati ristoranti damasceni, al-Khawali, sito sulla via Recta, appena prima del suq Medhet Pasha, anch’esso coperto. Non ci sono turisti eccetto noi, in un luogo che, in genere, è sempre stato parecchio frequentato anche dagli studenti stranieri di arabo.
La serata si chiude con un concerto di musica araba presso il Palazzo Azem, antica residenza del governatore di Damasco: un pubblico numeroso che riempiva la gran parte delle sedie messe a disposizione nel giardino interno.
Ultime riflessioni in albergo, dove pur essendoci un collegamento internet senza fili abbastanza celere non ci si può connettere a vari siti quali an-Nahar, Naharnet e NowLebanon (tendenzialmente su posizioni antisiriane). As-Safir (filosiriano) invece si. Guarda caso…E, paradossalmente, anche al-Jazeera, dove compare il video dei disordini di Kafar Suse.
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