A Tripoli col rappresentante dei ribelli di Qseir

(di Lorenzo Trombetta) La “Siria non diventerà l’Afghanistan, ma se l’Occidente vuole stabilità e sicurezza ci aiuti a far cadere il regime di Bashar al Assad”. Non ha dubbi lo shaykh Abu Khaled, membro del consiglio rivoluzionario di Qseir, cittadina della martoriata regione di Homs, per metà “liberata” e per l’altra metà “occupata dalle milizie di Assad”.

Abu Khaled è seduto in un caffé affollato in pieno centro di Tripoli, nel nord del Libano e teatro solo due settimane fa di scontri a sfondo confessionale tra miliziani libanesi pro-regime siriano e rivali anti-regime.

E’ ‘sceso’ a Tripoli dalle montagne al confine con la Siria per spiegare la posizione dell’Esercito libero siriano (Esl), principale piattaforma dei ribelli armati in patria, che ha dichiarato illegittimi gli ufficiali disertori basati in Turchia.

“Abbiamo diritto o no a difenderci? Siamo siriani, non siamo fondamentalisti e da oltre un anno subiamo la barbarie del regime”, afferma lo shaykh, 46 anni, sposato e padre di tre bambini, con una laurea all’Università sciaraitica di Damasco.

Secondo il Centro di documentazione delle violazioni in Siria (Vdc), dal 22 aprile 2011 ad oggi a Qseir 388 persone sono state uccise dalla repressione e dalle violenze. Da Qseir Tripoli dista cinquanta km – un’ora e mezza di auto – ed è considerata ormai la capitale della retrovia della resistenza siriana.

Nei mesi scorsi una nave proveniente dalla Libia carica di armi medie e leggere è stata fermata al largo delle coste di Beirut. Era diretta a Tripoli, hanno affermato le autorità libanesi, il cui governo è dominato da una coalizione vicina al regime siriano.

“Mi scusi – interrompe Abu Khaled – ma se vogliamo ricevere armi dall’esterno, le facciamo passare per le coste libanesi pattugliate dall’Onu (la missione Unifil)? Per farle magari attraccare ai porti controllati dagli amici di Hezbollah (il movimento sciita vicino a Damasco e Teheran)? E’ ridicolo.”.

E allora, come vi armate? “L’Esercito libero prende le armi nelle operazioni contro i governativi, oppure pagandole sul mercato nero, qui in Libano e nella stessa Siria. Le paghiamo, ha capito? Nessuno ce le regala!”, è esplicito Abu Khaled.

Ma con quali soldi? Il governo di Damasco ha oggi accusato il Qatar in particolare di inviare armi. “Se il Qatar e l’Arabia Saudita ci inviassero armi, il regime sarebbe già caduto. Le armi le paghiamo con le collette dei siriani all’estero. E se il Qatar ha inviato danaro al Consiglio nazionale siriano (Cns, principale piattaforma di oppositori all’estero), a noi di Qseir sono arrivate solo briciole”.

Qseir, a maggioranza sunnita e località che da decenni vive “di commercio tra i due Paesi” (“non chiamatelo contrabbando”!), è indicata dai media ufficiali di Damasco come punto di passaggio di armi e di qaedisti, “terroristi” pagati dall’Occidente, Israele, Turchia e soprattutto dai Paesi arabi del Golfo.

A fine maggio, alcune fonti indipendenti hanno denunciato la presenza a Qseir di gruppi armati “fuori dal controllo dell’Esercito libero” e con tendenze fondamentaliste e salafite. “Ci sono è vero – ammette Abu Khaled – ma sono una goccia nel mare”.

A Qseir, dove prima dell’inizio della rivolta, cristiani e musulmani vivevano gli uni a fianco degli altri, sono giunte voci allarmanti di ultimatum rivolti dai ribelli ai cristiani di lasciare la cittadina. “E’ accaduto, ma si tratta di teste calde, di gruppi isolati, i cui atti trovano giustificazione nella brutale repressione del regime su base confessionale… Noi del consiglio rivoluzionario (dell’Esl) rifiutiamo questi gesti. Siamo nati e cresciuti con i cristiani, siamo fratelli”.

Perché allora non includere anche i cristiani nel consiglio rivoluzionario? “All’inizio glielo abbiamo proposto”, ha detto Abu Khaled. “Ma non se la sono sentita di far uscire i loro nomi. E non si può formare un consiglio con metà dei membri anonimi. Hanno paura di rappresaglie da parte del regime”.

L’apparato di repressione degli Assad è noto per abbattersi più duramente contro i dissidenti alawiti (branca minoritaria dello sciismo a cui appartengono i clan al potere da più di 40 anni) e delle altre minoranze confessionali, cristiani in primis.

“Sono stato allattato da una balia cristiana. E con tre abitanti cristiani di Qseir sono fratello di latte. L’orto di famiglia confina da anni con l’orto del mio vicino cristiano. Come possiamo odiare i cristiani? Come possiamo – chiede retoricamente Abu Khaled – intimare loro di andarsene?”. (ANSA, 19 giugno 2012).