A Tripoli tra gli spari. “Benvenuto in Siria”

(di Alberto Tetta, per Europa Quotidiano). «Io, mio marito e i miei tre figli dormiamo nello stesso letto tutte le notti – spiega Souad guardando il pavimento – così se i cecchini ci sparano durante la notte per lo meno moriremo abbracciati».

La sua casa, come quasi tutte a Jabal Mohsen, il fronte libanese del conflitto siriano, è crivellata di colpi. Lo scorso giugno – quando a Tripoli gli scontri tra Jabal Mohsen, il quartiere alawita pro-Assad, e quello di Bab al Tabbaneh, sunnita e vicino alla rivolta, hanno fatto 15 morti in pochi giorni – Souad ha passato varie notti in bianco nascosta con i vicini all’entrata del suo palazzo. Poi è scappata a Mina dai suoi genitori.

Quattro giorni fa, appena concluso il mese di Ramadan, gli scontri nel nord del Libano sono ricominciati. Dodici le vittime del fuoco incrociato dei cecchini: tra loro anche due soldati, donne e bambini.

Jabal Mohsen, inerpicato su una collina della periferia est di Tripoli, la seconda città del Libano, non è un quartiere qualsiasi ma un feudo alawita pro-Assad controllato dal Partito arabo democratico, una formazione libanese di ispirazione baathista. «Con il regime siriano abbiamo una relazione dialettica, ma molto stretta: ci incontriamo periodicamente con rappresentanti del Baath, con cui coordiniamo la nostra azione politica», spiega Ali Fiddar, il vice segretario del partito. Alle sue spalle la gigantografia del presidente siriano e la biografia in più volumi del padre Hafez.

«Bashar al Assad sta conducendo una valorosa lotta contro un complotto internazionale per abbatterlo, orchestrato da Arabia Saudita, Qatar e Stati Uniti. Noi siamo al suo fianco». A Jabal Mohsen i giornalisti possono entrare solo se scortati dai miliziani del Partito arabo democratico, previa autorizzazione del segretario del partito.

«Benvenuto in Siria», scherza un di loro. I poster di Bashar al Assad, del fratello Maher e le bandiere della Siria sono onnipresenti: la foto più gettonata è quella che ritrae il presidente siriano al fianco dello storico leader del partito pro-siriano libanese Ali Eid e suo figlio Rifaat, attuale segretario del movimento. Recentemente gli abitanti del quartiere hanno cominciato a esporre anche le bandiere di Russia e Cina in segno di gratitudine per i due paesi per il loro sostegno al regime.

Poco sopra Syria street, il confine non ufficiale tra i due quartieri rivali, decine di sacchi di sabbia sistemati tra un palazzo e l’altro proteggono i passanti. Dal piano terra di un palazzo pieno di fori di proiettile, a pochi metri da Bab al Tabbaneh, una giovane donna racconta la tragedia di vivere sulla linea del fronte. Interrogata sulla crisi siriana risponde laconica: «Allah, Siria, Bashar e basta!», uno degli slogan pro-regime più diffusi.

Gli abitanti di Jabal Mohsen si sentono delle vittime: «Siamo isolati, le milizie dei partiti sunniti ci attaccano da tutti i lati, non solo da Bab al Tabbaneh, ma anche da Qubba, che sta alle nostre spalle ed è controllato dai salafiti. Siamo stati costretti ad armarci semplicemente per difendere le nostre famiglie», spiega con una pistola alla cintura Ali Shafiq, che oltre a gestire un piccolo negozio di alimentari è responsabile per la sicurezza del suo isolato.

«Ci attaccano perché sostengono l’Esercito siriano libero (la maggiore formazione dei ribelli, ndr) e per loro sparare a noi è come sparare a dei soldati siriani. È vero, sosteniamo Bashar al Assad, ma siamo pur sempre libanesi e abbiamo il diritto di esprimere liberamente le nostre idee politiche».

Nur, direttore della piccola clinica del quartiere, non ha dubbi sui responsabili degli scontri: «L’unica spiegazione per cui dovremmo essere noi ad attaccare per primi i nostri vicini è che siamo completamente pazzi. Siamo cinquantamila e tutti gli alawiti che vivono a Tripoli stanno qui. Ma tutti i quartieri che ci circondano sono sunniti e ci vivono 500mila persone. Qui il 90 per cento di noi combatte per rimanere in vita, mentre l’obiettivo dei nostri nemici è semplicemente ucciderci».

La recrudescenza del conflitto armato in Siria e i successi dell’Esercito siriano libero hanno portato la tensione alle stelle anche a Tripoli, città nettamente divisa tra sostenitori della rivolta anti regime e fan di Bashar al Assad. Sabato scorso si è tornato a sparare. Il pretesto per sfogare in scontri a fuoco tensioni accumulate per mesi è arrivato la scorsa settimana: dopo la notizia, poi smentita, che Maher, il fratello di Bashar al Assad era rimasto ucciso in Siria, i ragazzi di Bab al Tabbaneh hanno lanciato fuochi d’artificio per festeggiare. Gli abitanti di Jabal Mohsen, offesi da quella che hanno sentito come una provocazione hanno cominciato a sparare sulla folla in festa. Duro il bilancio degli scontri, dodici i morti e più di cento i feriti di un conflitto che ha continuato a fare morti anche nella notte di ieri, benché la sera prima i principali gruppi armati avessero trovato un accordo per un cessate il fuoco immediato.

«La situazione in Libano sta diventando sempre più precaria ed è importante che la comunità internazionale dia il proprio sostegno al governo di Beirut e alle forze armate libanesi. Siamo preoccupati che le tensioni interne possano essere alimentate dagli sviluppi del conflitto in Siria», ha dichiarato il sottosegretario per gli affari politici delle Nazioni Unite Jeffrey Feltman.

Dall’altra parte della barricata, Bab al Tabbaneh è un campo di battaglia. Le strade del quartiere sono deserte. Gli unici a circolare sono i gruppi di uomini armati legati ai diversi partiti sunniti libanesi presenti nel quartiere. Avvicinarsi a Syria street, il fronte caldo dello scontro, usando i vicoli del quartiere è troppo pericoloso. I miliziani usano cunicoli ricavati abbattendo le pareti interne degli edifici.

Quando si è costretti ad attraversare la strada lo si fa di corsa, protetti da teloni di plastica appesi da un lato all’altro della strada per non essere individuati dai cecchini. In Syria street combattono militanti salafiti dalle barbe lunghe, supporter dell’Esercito siriano libero, sostenitori del Movimento per il futuro (il partito sunnita anti-siriano guidato dall’ex premier Saad Hariri), ma anche molta gente comune non legata ad alcun partito.

Come Raed, impiegato comunale che abita a Bab al Tabbaneh da trent’anni: «Quelli di Jabal Mohsen non sono libanesi, sono soldati siriani. Ci insultano di proposito esponendo i poster di Bashar al Assad e le bandiere della Siria per provocarci. Io abito al quarto piano di un palazzo qui su Syria street e ho visto con i miei occhi i loro cecchini addestrati dall’esercito siriano uccidendo mirando alla testa donne e bambini. Ci sparano per spostare l’attenzione della comunità internazionale sul Libano in modo che non intervenga in Siria». Secondo Raed il conflitto durerà ancora a lungo: «Fino a quando Assad rimarrà in sella gli scontri continueranno, questo è solo un altro fronte della guerra contro Assad. Ma se Dio vuole vinceremo noi». (Europa Quotidiano)