Il testo che segue è un solo estratto, redatto per l’ANSA, di una lunga chiacchierata tra Romenzi e Lorenzo Trombetta a Beirut appena il fotografo italiano è tornato da Qseir. Nei prossimi giorni SiriaLibano pubblicherà altri estratti dell’intervista.
Non ho visto terroristi ma resistenti armati che si difendono dalla repressione del regime del presidente Bashar al Assad: sono le prime parole pronunciate il 28 febbraio 2012 a Beirut da Alessio Romenzi, fotoreporter italiano, rimasto per cinque settimane nella martoriata regione siriana di Homs confinante col Libano.
“Non ho visto consiglieri militari del Qatar, britannici o di altri Paesi. Le armi dell’Esercito libero (Esl, i miliziani anti-regime) vengono pagate con collette locali e dall’estero, ma nessuno regala loro niente”, afferma Romenzi mentre addenta una pizzetta ospitato nell’ufficio dell’ANSA di Beirut.
“I miliziani non possono sostenere a lungo un confronto armato con l’esercito governativo”, assicura mentre sfoglia sul desktop alcune foto scattate nelle settimane passate a Qseir, cittadina di 40.000 persone, a maggioranza sunnita, a metà strada tra il confine libanese e Homs. “Le armi in loro possesso sono fucili automatici, RPG e due mortai. Nei giorni scorsi si sono uniti a loro dei carristi disertori, che hanno lasciato i governativi portandosi dietro il carro armato russo T-62 con 44 colpi”.
“In tutto a Qseir i membri dell’Esl saranno un migliaio, organizzati in 15-20 gruppi, ma non c’è molto ordine tra loro”, racconta il fotoreporter, 38 anni, originario di Colle Sant’Angelo (TR). “Qseir è circondata per 3/4 dalle truppe governative che occupano anche posti chiave all’interno della città, tra cui l’ospedale pubblico da mesi trasformato in loro base militare”.
“I governativi sparano in modo indiscriminato con mortai, RPG, carri armati e fucili automatici. Sparano alle abitazioni, per ricordare che loro sono lì. Romenzi è stato ospitato da famiglie locali, vivendo a stretto contatto con loro. “Ho lasciato il cuore a Qseir”, afferma mentre risponde ai primi messaggi di familiari, amici e colleghi.
Per due giorni, in queste lunghe cinque settimane, è riuscito ad arrivare a Bab Amro, martoriato quartiere di Homs, dove mercoledì scorso hanno trovato la morte due giornalisti, l’americana Marie Colvin e Remi Ochlik e dove sono stati feriti la francese Edith Bouvier e il fotografo britannico Paul Conroy, le cui sorti sono ancora circondate da molta incertezza.
“Arrivare a Bab Amro è stata un’impresa. Una volta dentro, siamo rimasti di fatto rinchiusi nell’improvvisato Media Centre degli attivisti. Era difficilissimo uscire e lavorare. I mortai venivano giù a pioggia. Ho visitato l’ospedale da campo, che poi è una stanza con poche attrezzature e medicine”.
A Bab Amro Romenzi ha anche constatato che è molto difficile verificare i bilanci dei civili uccisi diffusi giornalmente dagli attivisti. “Una mattina i locali mi parlavano di dieci morti ma io ne ho contati sei o sette al massimo. Magari altrove c’erano i cadaveri ma era impossibile andare in giro e verificare”.
Per questo Alessio Romenzi, che con un suo scatto è arrivato alla copertina del Time, ha preferito lavorare a Qseir: “E’ una Homs in scala. E più accessibile. Con pazienza ho potuto documentare correttamente quel che avveniva. Qseir è un posto fantastico per descrivere la rivoluzione siriana”.