‘Ash-Sham ‘ash-Sham: i volti precursori di una Siria che non è Asad

(di Estella Carpi*). Il documentario ‘Ash-Sham ‘ash-Sham, che in italiano tradurrei con “Sulla strada per Damasco”, prende il titolo dal tipico invito ai passeggeri in dialetto siriano di salire sugli autobus che da realtà rurali e marginalizzate della Siria partono verso la capitale.

‘Ash-Sham ‘ash-Sham, girato nel 2006, è un’efficacissima collezione di reazioni a caldo, brevi storie e pensieri sull’esclusione delle regioni siriane al di fuori della capitale: Tadmor, Deir ez-Zor, al-Hasake, as-Suweida’ e i villaggi costieri di Lattakia.

La precoce registrazione del dissenso fa sì che il film, girato ormai ben sette anni fa, sia un bello scacco per coloro che ipotizzavano un complotto americano dietro alle proteste inziate nel marzo 2011, mostrando i volti del discontento economico e del parziale rifiuto di guardare a Damasco, sede del potere governativo, come al centro delle loro vite, come garante della propria sopravvivenza e riconoscimento della propria esistenza.

Il documentario fornisce l’immagine vivida di un Paese devastato sotto un profilo economico quanto educativo. Rimane ambiguo, da approfondire, il rapporto tra tali città remote e la capitale Damasco, la quale emerge invece come culla del lusso più tronfio in un momento storico osceno per milioni di siriani schiacciati dalla povertà, dalla disoccupazione e dall’analfabetismo. Gli intervistati denunciano, seppur non potendo accusare il regime direttamente, l’invecchiamento sociale a cui sono stati inesorabilmente condannati dal governo degli Asad. Così come le testimonianze raccolte nei villaggi nei pressi di Lattakia, in cui la gente afferma chiaramente di arruolarsi nell’esercito per sfuggire alla povertà.

“C’è una sorta di controllo poliziesco all’interno della psiche di ogni siriano”, dice uno dei tre co-registi. “Mentre parlavano, gli intervistati sembravano domandarsi: ma se dico questo, alla fine verrà davvero mostrato?”

‘Ali, curdo-siriano di ‘Amuda, seduto tra il pubblico del Nasawiye Café di Beirut, propone la sua visione: la gente intervistata fatica a dare un nome al proprio stato di distruzione mentale, processo intrapreso dal regime anni addietro, e ora da quest’ultimo portato a compimento attraverso l’atrocità di un’inarrestabile repressione.

Fino a che punto il malcontento e la frustrazione siriani fossero arrivati ai minimi storici è stato troppo spesso sottaciuto, dipingendo gli eventi dal 2011 a oggi come un processo poco cristallino, permeato da dinamiche di psicologie di massa meno legate al resto delle rivolte nel mondo arabo. ‘Ash-Sham ‘ash-Sham, visto con gli occhi di quest’oggi, si pone quindi anche come rinverdimento eziologico della rivoluzione siriana.

Con mia sorpresa, e con immenso disappunto dei siriani presenti alla proiezione, il documentario è stato prodotto dalla Syrian Commission for Family Affairs, ente legale che fa direttamente riferimento al primo ministro siriano, ma con fondi e amministrazione indipendenti dal regime.

“Abbiamo dovuto censurare varie scene, come la prostituzione diffusa in queste zone a causa della povertà cronica”, specifica Alfuz Tanjur nel dibattito finale. “La polizia ci seguiva ovunque nelle riprese”.

Ma c’è una realtà che non può essere controllata e giostrata dal potere: seppur prodotto da enti semi-governativi e con un corpo di censura al seguito, il documentario finale riesce a essere la testimonianza nuda e cruda delle ragioni chiave della rivoluzione siriana e della sua genuinità, tuttora non data per scontata.

Le dinamiche contraddittorie tra la produzione governativa del film e la sua conseguente censura in Siria non sono affatto bizzarre agli occhi dei siriani: la facciata di lasciare ampi spazi di libertà simulando mosse democratiche, per poi tarpare le ali alla realizzazione di qualsiasi progetto che non risulti a sostegno del regime stesso, è tipica degli ambienti governativi asadiani.

A un convegno accademico svedese, qualche settimana fa, stringevo la mano a quello che credevo fosse l’unico regista del film, Nabil Maleh, da anni emigrato dalla Siria. L’altra sera, presso il Nasawiya Café, ho scoperto invece che il noto regista è solo uno dei tre che ha girato il documentario. Delusione e rabbia sono espressi sulla pagina Facebook di Amro Sawah e Alfuz Tanjur, i due co-registi che Maleh non ha mai nominato nelle sue varie apparizioni al pubblico occidentale. Maleh è il solo ad essersi preso i meriti, sfruttando i propri contatti negli ambienti mediatici occidentali, e venendo ormai dipinto come cineasta veterano dell’opposizione al regime e unico autore di ‘Ash-Sham ‘ash-Sham.

Le piazze occidentali acclamano oggigiorno il regista ufficiale del film, non conoscendo la tensione venutasi a creare tra lui, regista già affermato della vecchia diaspora, formatosi a Praga ed eretto a paladino cinematografico della causa siriana odierna da un lato, e gli altri due co-registi, attivisti “freschi” di repressione e distruzione dall’altro.

“Io e Amro abbiamo sognato al fianco di questi volti svelati e queste parole pronunciate, abbiamo la stessa loro età… grondiamo ancora di sangue con loro, mentre Nabil Maleh stava sorseggiando tè in Costa Rica o si faceva fotografare con Oliver Stone. E, mentre io uso l’unico mezzo che ho a disposizione, lui risponderà probabilmente alle mie parole su una pagina di as-Safir o di an-Nahar, o magari addirittura sui quotidiani siriani, sul Bath o il Tishrin!”, scriveva Tanjur sulla sua pagina Facebook qualche giorno prima della proiezione beirutina. La controversa vicenda dietro alla regia del film è degna di nota, per poter condividere l’amarezza di due artisti neo-rifugiati, arrivati in Libano solo qualche mese fa, e che, vivendo sulla propria pelle l’insensata gerarchia della gente della diaspora in termini di prestigio, vedono ancora negato così il loro contributo artistico e umano all’edificazione di una nuova società siriana.

Mi discosto dalle poche recensioni che ho letto in rete dopo aver visto il film: a mio avviso, non è la prova di una “nazione fallita”, che confermerebbe la visione secondo cui la Siria è Asad, e che usa quindi lo stesso linguaggio del regime. Se gli Asad hanno creduto di essere la Siria, ‘ash-Sham ‘ash-Sham dimostra che la Siria non è Asad.

È proprio malgrado gli spiacevoli retroscena fatti di tradimenti personali nella diaspora e produzione pseudo-governativa del film che ‘Ash-Sham ‘ash-Sham mantiene la sua efficacia, esemplificando l’abbandono dei cittadini di ultima classe, i quali, nella loro ambigua posizione rispetto al centro, vedono negata la potenziale vitalità di zone costruite socialmente come “periferie”.

La visione del documentario è consigliata per ritrovare l’origine di quella forza popolare che si trova ora nella stretta morsa del regime e delle derive islamiste perlopiù esogene che fanno il suo stesso gioco. Quella forza che ora singulta sofferente sotto i turpi colpi dell’indifferenza internazionale e dell’anti-imperialismo fondamentalista di orientalisti in poltrona.

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* Estella Carpi è dottoranda presso l’Università di Sydney e trascorre lunghi periodi in Libano per la sua ricerca sul campo. La si può seguire sul blog Mabisir.