Hazem Saghiye è editorialista di al Hayat, quotidiano libanese in lingua araba edito a Londra. Dirige una sua casa editrice, la Dar al Saqi, ed è considerato uno degli analisti arabi più lucidi e autorevoli.
Per al Hayat ha scritto un articolo sul ruolo svolto dall’Islam – soprattutto nelle sue espressioni più integraliste – nel contesto delle rivolte arabe. Lo proponiamo qui di seguito nella traduzione dall’arabo di Giacomo Longhi.
La paura che la “primavera araba” possa degenerare in regimi islamici è vasta e radicata. A esserne allarmate sono sia le minoranze religiose e confessionali, sia le classi medie ed emergenti. Vi sono poi intellettuali, scrittori e volti televisivi che si servono di questa paura come pretesto per condannare in toto le rivoluzioni.
Si tratta per lo più di una paura inibitoria e marginalizzante, ben diversa dalla paura di stampo positivo, utile e necessaria, che si trasforma in impulso a intervenire nelle faccende pubbliche e affrontare i fondamentalisti islamici dall’interno dei canali politici e costituzionali che si suppone le rivoluzioni abbiano messo a disposizione.
Quanto è accaduto e sta accadendo rivela un’immagine dell’avvento dei fondamentalisti islamici che poco ha in comune con quella tratteggiata dai detrattori delle rivoluzioni, quasi si trattasse dell’avanzata dei barbari.
In Libia è stato possibile sconfiggerli alle elezioni legislative. In Egitto il neo-presidente della repubblica, esponente dei Fratelli Musulmani, continua a lottare con il Consiglio militare per avere i poteri che gli spettano. In Tunisia i fondamentalisti islamici, per ottenere la maggioranza e governare, hanno dovuto coalizzarsi con altri due partiti laici. E in Siria, che non si è ancora scrollata di dosso la polvere della sua rivoluzione, non hanno commesso nessuno di quei massacri tanto paventati.
Con questo non voglio dire che i fontamentalisti islamici in Siria non potrebbero commettere azioni del genere, se il conflitto proseguisse a lungo all’attuale ritmo sanguinoso e se il regime continuasse ad armare i suoi gruppi, imbevuti di ideologie confessionali. E non voglio nemmeno dire che i fondamentalisti islamici egiziani e tunisini siano un esempio di tolleranza verso le minoranze, le donne, le libertà di credo e la creatività. Nei due Paesi, e in particolare in Tunisia, vi sono decine di piccoli e grandi eventi sporadici che rivelano quanto le tendenze al regresso e il condizionamento sociale siano ancora ricchi e fertili.
Quello che invece intendo dire è che oggi stiamo vivendo la celebrazione vera e propria della libertà, anche nel suo soffocamento e repressione. È una questione i cui vantaggi e svantaggi si confondono, senza che gli aspetti fondamentali si perdano però in quelli secondari.
Entro questi limiti, i fondamentalisti islamici al governo appaiono disorientati dal loro arrivo al potere e dal confronto con società complesse e moderne, più che dalla repressione. E quando anche loro praticano la repressione (cosa che accade) fanno esattamente come chi si schermisce dopo aver commesso un peccato: a volte si giustificano e altre volte ne prendono le distanze. Si tratta di una gravissima ingiustizia, tuttavia è la cattiveria del debole che è stato colto alla sprovvista dallo scarto tra le proprie priorità e il contesto democratico in cui è giunto al potere, tra le sue ambizioni e le procedure repressive.
È forse un dato insignificante che – e non si tratta di un esempio circoscritto – alcuni lavoratori edili provino a prendere d’assalto la sede di Ennahda, il partito al governo in Tunisia, per rivendicare i loro diritti? E che l’autorità ricorra al lancio di gas lacrimogeni per disperderli? Si sarebbe potuto immaginare durante l’era di Ben Ali di ottenere molto meno sotto il governo del partito costituzionale?
Analogamente, rimane emblematico – al di là della possibilità che si tratti solo di esibizionismo e simbolismo – il fatto che i Fratelli Musulmani in Egitto abbiamo cambiato nome quando sono diventati un attore politico. E che Muhammad Mursi abbia scelto come suo vice un copto, e un capo del governo conosciuto come “tecnocrate”, interessato in primo luogo all’economia.
Inutile dire che la libertà, con il sorgere di istituzioni legislative e costituzionali, è in grado di preservare la propria luce. E che essa ha alleati in questa battaglia che prima non c’erano o che non abbiamo voluto riconoscere. Il primo di questi è l’economia. Il secondo è il mondo esterno. Capiamo oggi infatti che se ci sono degli interessi esterni da noi, sono la nostra fortuna, non la nostra maledizione. Quanto al terzo alleato, viviamo – esclusa la Siria – in un mondo post guerra fredda, in cui è impensabile il ripetersi dello scenario iraniano del 1979.
Questo non è un invito a dormire tra due guanciali. Ma gli elementi per ben sperare sono più dei motivi per provare quella paura negativa che spesso viene assunta con passività maggiore.
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