L’Iran si compra Damasco. Mosca interviene

(di Ibrahim Hamidi, al Hayat. Traduzione dall’arabo di Claudia Avolio). Usama è figlio di un ex-funzionario siriano. E’ un ingegnere laureato all’università di Damasco. Lavorava nel suo campo e con la moglie era riuscito a comprare una casa a Qudsaya, un sobborgo fuori città.

Dall’inizio della rivoluzione, Usama ha scelto il grigio. Ha continuato a seguire la rivoluzione, malgrado le minacce subite. Si è sempre divincolato però ogni volta che la politica si accostava a lui e a suo fratello, o all’eredità di suo padre, ex ministro. Usama si è sempre divincolato anche ogni volta in cui i politici toccavano la sua gente.

Usama è rimasto al centro, ben saldo e in silenzio. Si è messo il cotone nelle orecchie, passando tra i posti di blocco a Damasco. Ignorava le allusioni rivoltegli dai membri della sicurezza, dopo che vedevano la sua carta d’identità e sapevano dov’era nato. Ha sopportato questa condizione per anni. Aveva paura di spostarsi fino a Beirut. Finché una sera si è presentato a casa del fratello più grande, sorprendendolo: “Ho venduto la casa di Qudsaya. Ho deciso di lasciare il Paese”.

Muhammad. Docente universitario. Anche lui ha scelto il grigio, ma la tonalità “buona”. Nota come “neutralità positiva”. Provenendo dalle zone dei “terroristi” nel sud, gli serviva una dose in più di lealtà. Da casa al lavoro. Dal lavoro a casa. La regione costiera è il punto più lontano dove si era spinto.

Portava la moglie e i due figli al mare. Questo due anni fa. Poi non ha più potuto fare gite fuori porta. Il suo stipendio mensile e quello di sua moglie bastavano appena per mangiare. Non è stato costretto a vendere la casa, ma ad affittarla.

La casa si trova a Mezze Giardini, dietro l’ambasciata iraniana. Ha chiamato un amico benestante. Gli ha chiesto “il favore della vita”. Ha chiesto diecimila dollari per l’affitto. Di fronte allo stupore dell’amico per la decisione di avventurarsi per mare insieme alla famiglia, col rischio di annegare, ha risposto: “Se mi dai i soldi, mi dai la vita”. Ha aggiunto: “dietro di me c’è solo la morte”.

Ghalib ha quasi cinquant’anni. Politicamente è fedele al regime. Anzi, fa parte del cosiddetto  zoccolo duro. E’ sunnita. Da generazioni la sua famiglia vive a Damasco, nel cuore della città.  Ma i figli sono andati all’estero. Ghalib è anche stato tra quelli che hanno sopportato con fermezza il rombo degli aerei nei cieli di Damasco e i colpi di mortaio che vi cadevano, soprattutto su Bab Tuma, il rione cristiano.

Musulmano in una zona cristiana, tra la moschea degli Omayyadi e il santuario sciita di Sayyida Ruqiyya, un giorno Ghalib è andato dal vicino: “Ho deciso di raggiungere i miei figli”. Dopo insistenti domande, Ghalib ha spiegato: “Sono un fedelissimo del regime… ma il regime lo sa che lo sono?”. Ghalib viveva nella costante paura che gli agenti della polizia segreta, sempre più numerosi in città, mettessero in dubbio la profondità delle sue lealtà e sincerità.

Ali è giovane. Il nome (più frequente tra gli sciiti e gli alawiti, N.d.T) non sempre tradisce l’appartenenza politica e comunitaria, ma nel suo caso sì. Ali si è laureato a un’università privata, creata nel quadro “dello sviluppo e della modernizzazione” del primo decennio del governo del presidente Bashar al Asad.

Ali ha studiato su testi occidentali che – come affermava il padre – gli “hanno corrotto la mente”. Al padre invece è stata inculcata la lealtà e l’ideologia nelle scuole del Baath. La lealtà di Ali non equivale alla lealtà del padre, ufficiale dell’esercito del regime.

Ali aveva scelto di trascorrere tutti i fine settimana a Beirut. Suo padre, quando aveva possibilità di scegliere, trascorreva invece le vacanze sulla costa. Ali era riuscito a “svignarsela” dal servizio militare di riserva. Non voleva essere ucciso. E forse non voleva neppure uccidere.

Non male allora avere la conoscenza giusta per evitare la naja. Anche grazie all’aiuto del padre, Ali ha messo da parte migliaia di dollari e ha deciso di partire: da Tartus in Libano. E poi verso l'”Europa sicura”.

Quando un giorno suo padre si era incaponito di sapere perché tanti giovani lasciavano il Paese, l’amico, da dietro lo sportello e sommerso di telefonate, gli aveva risposto: “Il Paese oggi è messo così. Per chi non gli sta bene la porta è aperta. E tanti saluti… che se ne vadano dove vogliono!”.

Un giorno, non tanto tempo fa, un anziano parlava al telefono con un amico e lo rassicurava sul suo stato di salute appena tornato da una visita medica. “Tra due giorni vado a far esplodere il calcolo (in arabo bahsa, N.d.T.)”. Il giorno dopo, l’anziano era sparito dalla circolazione. Ed è tornato a casa solo ore dopo. La polizia segreta lo aveva fermato perché chi aveva ascoltato la sua telefonata aveva pensato che il signore volesse far esplodere una bomba a Bahsa, che è un quartiere di Damasco poco lontano dal centro culturale iraniano.

In questa stessa città, nella “zona verde” della sicurezza, si trovano due uffici turistici. Usama, Muhammad e Ghalib si sono incontrati in uno dei due uffici. Entrambi gli uffici organizzano viaggi dalla mattina alla sera da Damasco a Tripoli, nel nord del Libano. A Tripoli, i tre hanno incontrato Ali, diretto in Turchia e altri Paesi stranieri.

Damasco si lascia a bordo di un pullman. Tra i quaranta passeggeri ci sono persone in fuga, profughi e migranti. Al confine libanese di Masnaa, dove i controlli sui siriani si sono intensificati, c’è chi scende e chi no per mostrare i documenti di viaggio. Arrivati a Tripoli, in Libano, ci sono due possibilità per raggiungere Mersin, in Turchia: nave o barcone.

Secondo le statistiche del porto di Tripoli, 27mila siriani sono partiti nel luglio scorso e 30mila ad agosto. In tutto il 2013 ne erano partite 30mila. E nel 2014 50mila. Ogni giorno dalle otto alle 15 barche partono da Tripoli per la Turchia, e due navi salpano verso i porti turchi di Mersin e Smirne.

Ingegneria iraniana, emorragia siriana

Muhammad e Ghalib sono tra quelli colpiti da due progetti edilizi avviati a Damasco. Il primo è informale il secondo è ufficiale. Nei mesi scorsi il governo ha dato il via alla riorganizzazione della zona di Mezze Giardini, tra l’ambasciata iraniana e l’ospedale Razi, lungo l’autostrada per Beirut.

Le autorità hanno intimato lo sgombero ai 200mila abitanti della zona, investita dal progetto di costruzione di alti edifici residenziali, cliniche mediche, scuole e centri commerciali. Il progetto è stato diretto da un consulente in pensione della regione di Damasco.

L’area da ridisegnare va da Daraya (sobborgo teatro di proteste pacifiche anti-governative dal 2011 e dal 2012 assediato e parzialmente distrutto, N.d.T.), controllato dall’opposizione e sotto tiro dall’aeroporto militare di Mezze, fino alla sede del consiglio dei ministri, della sede diplomatica iraniana e di uffici della polizia segreta.

Con un post apparso sulla pagina Facebook del progetto, si afferma che proprio la popolazione locale “ha chiesto la ristrutturazione dell’area” e che la zona di Giardini e dell’ospedale Razi “era tra le più care ancor prima del decreto” che ha dato il via al progetto. E che ancora oggi è tra le più care. “Quando il progetto sarà realizzato a metà – si legge nella nota – i prezzi saliranno ancora rendendo l’area una delle più costose non solo di Damasco ma di tutta la Siria”.

Nel gennaio 2014 l’organizzazione umanitaria Human Rights Watch (Hrw) ha pubblicato  un rapporto intitolato “Rasato al suolo. Demolizioni illegali siriane di un sobborgo tra il 2012 e il 2013″. Hrw si riferisce a sette zone, tra cui Kafr Susa e l’area di Mezze che circonda il già citato aeroporto militare. Il rapporto parla di tutta la zona demolita: sette aree estere per 140 ettari.

Hrw accusa le autorità siriane di voler “deliberatamente” distruggere zone residenziali e rendere sfollati chi le abitava. Il governo ha invece risposto affermando che la distruzione è avvenuta a causa delle battaglie con le opposizioni armate, e sostenendo che la zona non è in linea con la struttura della capitale.

Le opposizioni hanno chiesto perché questa zona è stata inserita nel piano di innovazione mentre ciò non è avvenuto per Mezze 86, un quartiere abitato da famiglie di funzionari dell’esercito e delle forze di sicurezza.

Dietro l’ambasciata iraniana e ai margini della periferia meridionale di Damasco si erge un edificio enorme. E’ parte della sede diplomatica iraniana, trasformata in una fortezza inespugnabile che ha ingurgitato metà dell’autostrada di Mezze. E’ un palazzo più grande di qualsiasi altra ambasciata della capitale, persino di quella americana. Alcuni lo chiamano il Palazzo dell’Ambasciata dell’Impero iraniano.

Inoltre il governo iraniano aveva negli anni ’80 comprato sedici ettari nella zona di Yafur come indennizzo della vendita al governo siriano di petrolio iraniano a prezzi di favore deciso dopo che Damasco si era schierata a fianco di Teheran nella guerra Iran-Iraq. Gli agenti immobiliari si aggiravano per i palazzi della zona, comprando appartamenti e affittandone altri. E si dice che i funzionari dell’ambasciata iraniana conoscano oggi tutti quelli che abitano nelle case del quartiere.

Preoccupato dall’espansione immobiliare iraniana, Ghaleb ha lasciato Bab Tuma. Un avvocato gli ha detto che gli agenti che lavorano per l’Iran stanno comprando gran parte delle proprietà attorno alla moschea [sciita, n.d.t.] di Sayyida Ruqayya, dietro la moschea degli Omayyadi, nella città vecchia, proprio dove i prezzi delle case sono solitamente inarrivabili.

Un altro avvocato ha detto che degli agenti immobiliari hanno detto a un proprietario di una casa di fronte alla Banca Centrale che “loro [gli iraniani, n.d.t.] vogliono questo palazzo e sono pronti a pagare qualsiasi cifra”. Secondo l’avvocato, il “piano iraniano” prevede la creazione di un complesso simile a quello che circonda il mausoelo di Sayyida Zaynab, a sud di Damasco: ristoranti, mercati, alberghi attorno alla moschea. Il nuovo complesso dovrebbe invece estendersi dall’area attorno alla moschea degli Omayyadi fino al centro moderno della capitale, nell’area della Banca Centrale e del Parlamento.

A Homs la storia è un po’ diversa. A metà dell’anno scorso un funzionario iraniano aveva convinto funzionari della sicurezza siriana che era necessario giungere a un accordo che avrebbe previsto l’evacuazione delle opposizioni armate dalla città vecchia e l’ingresso delle forze del regime in uno dei più importanti quartieri della “Capitale della rivoluzione”. Adesso, tutti i quartieri di Homs, eccetto al Waar, sono sotto il controllo delle forze del regime e delle milizie filo-iraniane delle Forze di difesa nazionale.

A Homs è stato intanto avviato un “progetto di ricostruzione e riorganizzazione di Bab Amr” e di altri quartieri teatro delle operazioni militari che hanno portato alla presa da parte del regime di queste zone e l’espulsione dei loro abitanti. Il progetto per Bab Amr comprende 217 ettari e 465 settori residenziali, oltre a scuole e ospedali.

Secondo documenti ufficiali trapelati alla stampa tramite attivisti e oppositori Bab Amr e Abbasiya sono delle periferie degradate da far rinascere. In un incontro a porte chiuse, il governatore di Homs, Talal Barazi, ha detto – secondo quanto riportato da un attivista – che “il progetto (di Bab Amr) tutela i diritti dei proprietari degli immobili e di chi vi abita prevedendo un alloggio alternativo o un risarcimento in denaro”.

Bisogna ricordare che la maggior parte degli abitanti di Bab Amr sono da tempo fuggiti fuori dalla Siria e che due anni un incendio ha distrutto l’ufficio del catasto di Homs. In molti affermano che i loro certificati di proprietà sono ormai andati perduti. E c’è chi afferma che “Homs è diventata un’altra città”.

La Russia interviene per limitare l’iranizzazione

Qusayr, a sud-ovest di Homs, e i quartieri di Homs passati sotto il controllo del regime sarebbero dovuti essere ripopolati dagli abitanti di Fuaa e Kafraya, due cittadine sciite nella regione di Idlib. Gli iraniani erano coinvolti in un negoziato per una tregua che ha poi coinvolto Zabadani, a ovest di Damasco, e Fuaa e Kafraya. Gli iraniani avevano suggerito di evacuare gli oppositori armati di Zabadani e le loro famiglie verso Idlib, a maggioranza sunnita.

In cambio, decine di migliaia di abitanti sciiti di Fuaa e Kafraya sarebbero state evacuate nelle zone sciite a sud di Damasco, come Sayyida Zaynab. In attesa dell’avvio dei progetti residenziali in queste zone. [L’accordo, che non prevede però il rilascio di un numero di prigionieri politici nelle carceri del regime, come richiesto dalle opposizioni armate, è stato concluso il 25 settembre scorso. I civili di Fuaa e Kafraya non sono però stati ancora evacuati. Mentre i pochi insorti di Zabadani sono stati trasferiti a Idlib, n.d.t].

Intanto, dall’8 agosto scorso sono i servizi di sicurezza siriani a dover fornire un consenso scritto per ogni operazione di compravendita di immobili (abitazioni o terreni) nelle zone del regime. Pare che quest’ultimo non abbia ancora dato il suo consenso alla stipula di contratti di iraniani che avevano acquistato terreni a Homs città e regione. Questo avviene in un momento in cui i rappresentanti siriani di imprenditori iraniani in Siria attendono forse l’esito dell’accordo sul nucleare iraniano. Questo potrebbe avere l’effetto di facilitare le trattative finanziare.

Mentre si scrive, le bandiere russe e le foto del presidente Vladimir Putin competono o superano ora i segni e i simboli iraniani nelle aree del regime. Soprattutto a Damasco, in cui le merci hanno etichette in persiano. Sempre a Damasco hanno cominciato ad arrivare artigiani, medici e ingegneri… Tra gli oppositori si dice che sarebbero diecimila i medici siriani ad aver lasciato il Paese, di cui  quattro sui seimila totali solo ad Aleppo.

Il rifiuto da parte di Mosca dell'”ingegneria sociale” iraniana significa rifiutare il cambiamento delle amministrazioni politiche dall’esterno e il rispetto della sovranità siriana e delle sue istituzioni. E’ un rifiuto russo rispetto al cambiamento dall’alto, in un momento in cui avviene un tentativo di cambiamento della società dal basso.

C’è chi lascia il Paese per scappare dai barili-bomba, le armi chimiche, lo Stato islamico o il carcere. Il numero dei rifugiati nei Paesi vicini è salito a cinque milioni. Ma la vera novità è che ad andarsene sono anche gli esponenti della classe media e i ricchi.

La paura di essere rapiti, l’assenza di speranza, la sfiducia nel fatto che il regime riesca a governare e il calo del tenore di vita hanno spinto chi è lontano dalla politica ad andarsene dalle zone controllate dal regime o dalla “Siria utile”. Come se ci fosse chi vuole la Siria “utile per il terreno e per il popolo”. Fino a che punto si spingerà il coinvolgimento militare russo prima di fermare l’emorragia dei siriani? (al Hayat 23 settembre 2015).