Un parcheggio nel quartiere cristiano di Beirut, in Libano, è l’appuntamento col contatto che conduce oltre confine, nella Siria in fiamme, a Homs, “capitale della rivoluzione”.
Nidal è però solo il primo degli anelli di una lunga catena di “fratelli” e “conoscenti”, tutti atleti di una lunga staffetta di cui il cronista straniero che intende entrare in Siria senza passare per i rigidi controlli del ministero dell’informazione di Damasco, è il testimone. Di nome e di fatto.
Nidal è di Qseir, cittadina siriana di 40.000 anime tra il confine libanese e Homs. Tra le auto parcheggiate, Nidal è foriero di brutte notizie: “Bisogna aspettare una settimana, forse dieci giorni. La strada non è sicura. Né per te né per chi ti porta dentro”.
I percorsi previsti sono due. Il primo, meno sicuro, attraverso il Monte Libano, la valle della Beqaa – dominata dal movimento sciita Hezbollah alleato di Siria e Iran – e poi l’Antilibano, fino alla piana dell’Oronte, fiume che lambisce Homs.
Il secondo prevede un percorso più lineare e quasi tutto in un mare sunnita solidale con i rivoltosi siriani: da Beirut a Tripoli, poi verso est fino alla regione di Wadi Khaled, da dove si distinguono i palazzi della periferia della terza città siriana. “Oltre Wadi Khaled non si passa più”, afferma Nidal.Il confine è stato minato a partire da dicembre. E l’esercito siriano è dispiegato in massa.
Bisogna allora avventurarsi nell”ostile’ Beqaa. La prima fermata da Beirut, dopo il Monte Libano, è Shtura. A valle si respira già aria di Siria: cambiavalute, lavoratori a cottimo e poi tanti occhi indiscreti delle agenzie di sicurezza di Damasco. Il cronista è biondo: in Irlanda passerebbe inosservato, ma a Shtura no. Un cappello a coprire i capelli. E via il foulard d’ordinanza attorno al collo, tipico di molti reporter che vanno “in Oriente”.
A Shtura si cambiano i soldi. Meglio avere con sé non solo dollari ma anche moneta siriana. Poi a bordo di un altro pullman. Pieno di soldati libanesi che tornano a casa. Il cronista – ammonisce Nidal – deve viaggiare leggero e senza mostrare zaini di ultima generazione, magari pieni di cavetti, telefoni, macchine fotografiche.
Si risale la Beqaa verso nord, si supera Baalbeck, la capitale degli Hezbollah e centro di smistamento delle armi che vengono dalla Siria e che finiscono nell’arsenale del Partito di Dio anti-israeliano. Si scende a un anonimo crocicchio. “Da lì si sale verso Arsal“. Un nome ‘strano’, ma da ricordare bene. E’ l’ingresso illegale verso Homs.
Arsal è una cittadina sunnita sulle brulle pendici occidentali dell’Antilibano. Gli abitanti, tutti solidali con la rivolta siriana, si sentono assediati dagli sciiti di Hezbollah e questo fortifica in loro la convinzione di dover aiutare i loro “fratelli” siriani oltre confine. Descritta come “il corridoio di al Qaida”, la cittadina vive da anni della ricchezza delle cave di pietra, della coltivazione di ciliegi e del tradizionale contrabbando: combustibile domestico, sigarette, cemento e armi. In passato il flusso di armi era dalla Siria verso il Libano, oggi è il contrario.
Ma ad Arsal ci sono anche qualche centinaio di profughi siriani, ospitati dalle famiglie locali. In una di queste capita il cronista, affidato a un amico di Nidal. Nella casa si trova a passare una giornata e mezzo. Fuori piove e si muore dal freddo. La sala è riscaldata con una vecchia stufa e sui divani accanto allo straniero si alternano i vari uomini della famiglia. Delle donne nemmeno l’ombra. Caffè, poi ancora caffé e poi una cena calda. Del tè, e poi ancora tante chiacchiere. Solo in arabo però.
L’ordine è di aspettare il giorno dopo, quando qualcuno, a bordo di una moto, porterà in sella il cronista oltre la frontiera. Si parte all’alba. La moto Guzzi sferraglia agilmente sull’altipiano. Dopo mezz’ora si è a Qseir, tappa intermedia prima di continuare verso Homs. I disertori controllano alcuni accessi verso Bab Amro, martoriato quartiere di Homs ma bisogna sapere aspettare. Tre giorni per coprire pochi km di strada. Appostamenti, attese in campi paludosi.
La rete cellulare libanese non arriva più. Quella siriana funziona a intermittenza. Di notte si giunge a Bab Amro, il cronista incontra un collega europeo, anche lui ospitato nell’improvvisata sala stampa degli attivisti che resistono ai bombardamenti del regime. E’ al piano terra di un palazzo già colpito dai mortai ed è la stessa in cui si trovavano la mattina del 21 febbraio 2012 Marie Colvin, Remi Ochlik e gli altri reporter rimasti feriti. (Per ANSA, 21 febbraio 2012)
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