Beirut-Sham, viaggio di fine Ramadan

Moschea degli Omayyadi, Damasco

Comincia qui un breve diario da Beirut a Damasco, compiuto a fine agosto. Uno sguardo nella città vecchia che si prepara alla festa del Fitr mentre il Paese è in fermento. 

Beirut-Damasco, sabato, 27 agosto 2011

Dopo aver accompagnato la signora che sedeva accanto me nei sedili posteriori del servìs alle soglie del vivacissimo quartiere di Burj Hammud, l’autista ci conduce alla stazione “Charles Helu” di Beirut… Non mi attendevo di vedere tanti passeggeri (rukkab, in arabo) stranieri diretti a Damasco!

A una prima fugace impressione mi era parso che come turisti non fossimo affatto in tanti a voler varcare la frontiera per raggiungere la Siria. L’Id al-Fitr, che segna la fine del mese sacro del digiuno di Ramadan, è alle porte e per questo mi aspettavo un maggior flusso di siriani verso il Libano. Non il contrario.

Poche erano le caratteristiche automobili, larghe e schiacciate, di moda diversi decenni fa, parcheggiate in stazione e dirette verso la capitale siriana. Rari i passeggeri isolati o in coppia. Già temevo di dover attendere ore prima di veder la nostra auto riempita…anche perché il “nostro” autista non avrebbe lasciato Beirut con meno di sei rukkab: quattro dietro e due davanti. Oltre a lui alla guida. Gridava “La Sham, la Sham” (“verso Sham”, nome con cui comunemente è chiamata Damasco e l’antica regione di cui per secoli è stata la città più importante).

E invece eccomi di fronte a gruppi numerosi di famiglie intere dirette in Siria. Sorrisi di bambini con i capelli appena pettinati, in linee e frange cristallizzate dalla gelatina, lucidi al sole. Bimbi vispi, con le magliette giallo canarino di Spongebob, con i succhi di frutta e le buste colme di mille oggetti.

I pullman per Aleppo si sono riempiti con facilità, mentre non vi sono pulman diretti a Damasco. Nell’attesa scambio qualche parola con l’unico passeggero oltre a noi: Ahmad, un ragazzo dall’aspetto ordinato, siriano di Homs, che lavora a Solidere come “project manager”. Fuma, sebbene la tregua dell’iftar (dal tramonto all’alba) sia ancora lontana parecchie ore. Intorno a noi tanti bevono té e caffè, persino aromatizzati al cappuccino, con tanto di cacao in polvere sulla schiuma di latte. La sporcizia e la povertà circostanti, ai margini del mese sacro di digiuno, non precludono il piacere.

Ma ecco tre ragazzi, nuovi rukkab. La nostra macchina, finalmente al completo, parte. Sette persone a bordo. Io, stipata davanti, cinture opzionali, in un viaggio di circa due ore sotto il sole d’agosto. Nessun problema alla frontiera per il visto d’entrata, nessuna domanda. Solo i controlli ai bagagli.

12.45: “Hamdellah as-salame”. Come si dice in arabo, “giunti in pace”. Sani e salvi, nella stazione alla periferia di Damasco. Taxi per la centralissima piazza di Bab Tuma, la “Porta di Tommaso”, uno degli antichi (e odierni) accessi che immettono nella Città vecchia.

Il tragitto attraverso l’autostrada che taglia il quartiere di Mezze ovest-est mostra una città affaccendata in una apparentemente normale scansione quotidiana d’eventi. Traffico, acquisti, banche. C’è persino un semaforo sonoro che indica ai non vedenti la possibilità dell’attraversamento. Il fluire delle immagini a me note del Four Seasons, del Semiramis – lussuosi hotel ritratti da scatti veloci dai finestrini del taxi giallo – mostra una Damasco immobile, in un’atmosfera d’attesa cristallizzata. Di calma densa e pesante.

Si prosegue per Suq Saruja, via Baghdad sino al benestante quartiere cristiano di Qassaa, la prima cintola commerciale di negozi e uffici, appena fuori la Città vecchia. Scesi dal taxi, paghiamo il nostro autista. Sorridente, gentile e premuroso. Forse perché non si vedono più greggi di turisti per la città, data la “difficile situazione che affronta il paese”. Litania che sentirò risuonare di continuo. Nelle giornate successive trascorse tra le mercanzie dei suq, le preghiere delle moschee, i matrimoni nelle chiese.