Damasco, “Colui che uccide viene ucciso”

22 ottobre 2011, tarda mattinata. Un mese esatto è passato e la stoffa iraniana è ancora senza forma. Di nuovo dal sarto e dai ragazzi della sua famiglia: col metro mi si prendono le misure, tra qualche giorno avrò il mio chador.

Senza accorgermi del fatto che esattamente un mese fa riprendevo la stoffa dal sarto, stamattina sono tornata a cercarlo, nel suo laboratorio vicino al minareto color smeraldo.

Lui non c’è. Ma M., del negozio accanto, mi invita ad entrare: “Attendi un attimo, lo chiamo, vedo se può avvicinarsi”.

M. è il fratello di A., con cui avevo avuto la lunga conversazione circa gli eventi in Siria. Pochi minuti, e compare anche A.: “Wein kenti? (dov’eri). Contavo di vederti il sabato successivo alle muzaharat (manifestazioni di protesta contro il quarantennale regime baathista della famiglia Asad), ma sei sparita. Temevo ti fosse successo qualcosa, problemi in Siria o al confine. Siediti, facciamo il caffè”.

Parliamo. Chiedo del sarto, e del figlio J.: “Ancora non è tornato, ancora non sappiamo in quale carcere l’abbiano portato. In realtà nemmeno sappiamo se sia vivo”. Sia A. che M. ieri, 21 ottobre, sono stati a manifestare nel quartiere di Midan, nel “Venerdì dei martiri uccisi dal ritardo arabo” (jum3a ash-shuhada’ al-muhla al-arabiya).

M. mi mostra una ferita sulla mano: “Hanno i coltelli, ma non solo. Russiye (modelli di fucili russi, tipo Kalashnikov), rassasat (pallottole), bastoni e persino spade. E quando caricano devi solo fuggire, verso i rioni interni (harat), guizzando nei vicoletti (zawarib)”.

Mi dicono che loro non vanno insieme alle manifestazioni, si separano. Tant’è vero che mentre A. va solo il venerdì protesta, M. ogni giorno, dopo il lavoro, attorno alle 19 di sera scende in strada. Ieri a Midan, quartiere damasceno non lontano dal centro storico della città, domani a Sa’ba (Sabqa, in arabo classico, sobborgo di Damasco).

“Come arrivi al luogo di raccolta delle manifestazioni? Porti con te qualcosa, un coltello come minimo?”, chiedo a M. Lui sorride: “Nulla. Mani nude, nemmeno un coltello. Vado in macchina, la parcheggio, scendo e mi unisco al corteo. Non usiamo nemmeno le pietre”.

“Ci sono donne con voi? Bambini?”. “Ovviamente donne. Ragazze come te, come anche madri, persone adulte. L’età varia dai 15 ai 50 anni. In genere gli anziani non vengono alle manifestazioni. A Damasco non ci sono state vittime tra le donne: nei cortei gli uomini le circondano e le proteggono, loro stanno nel cuore della folla, e appena iniziano a caricarci e picchiare coi bastoni, o a sparare (fa il gesto come se imbracciasse un fucile e sparasse ad altezza d’uomo “rat ta ta ta ta ta…”, il suo verso) lasciamo che siano loro le prime a scappare via. Solo dopo, anche noi uomini”.

Chiedo a M. se non abbia paura che le forze di sicurezza o la polizia vengano a cercarlo qui al negozio, che l’abbiano ormai identificato. Mi risponde che sono già venuti diverse volte, lui è riuscito a non farsi trovare, usando espedienti vari, tra cui dormire in posti diversi.

Nehna kullu matlubin (siamo tutti ricercati. Si può essere matlub dalle autorità per i motivi più disparati, il più frequente dei quali è il rifiuto della leva militare obbligatoria). Oltre a mio cugino J. (il figlio del sarto), anche mio zio (fratello del sarto) è in carcere”.

A differenza di A. – che mi mostra fiero foto del figlio di tre mesi con lo stesso nome del nonno paterno – M. non è sposato e non ha figli. E quando gli si chiede se abbia paura del carcere, delle torture, della morte risponde candidamente che andrà in paradiso. E sarà motivo di vanto per la famiglia, perché morirà da martire (shahid).

“Per mio cugino, per mio zio, io scendo in strada. Se ci fermiamo adesso il regime ci ucciderà, uno per uno. Se anche morissero due, tre, sette milioni di cittadini non sarebbe grave quelli del regime”.

“Le cifre che senti su al-Jazeera, al-Arabiya, faransa (che in arabo significa Francia, e indica l’emittente France 24) minimizzano, sottovalutano la cifra reale delle vittime. Sono almeno 10.000 i morti, e mezzo milione i cittadini arrestati. Usano gli stadi, i magazzini. Nello stadio degli Abbasidi (nell’omonima piazza vicina al quartiere nord-orientale di Qassaa) vedo vetture piene zeppe di soldati entrare e uscire”.

“E ieri a Midan, com’è andata?” “Ci hanno caricati. C’erano sia le forze di sicurezza (kata’ib hifz al-‘amn) in tenuta pesante, vestite di nero, con caschi e scudi trasparenti, che le mukhabarat (polizia segreta, divisa in circa 20 agenzie e sotto agenzie differenti) armate di bastoni e fucili. Siamo scappati, mi hanno solo ferito la mano, ma ne hanno arrestati un centinaio almeno”.

“Più di sette mesi sono passati, quanto pensate possa durare ancora? La gente è stanca, il regime ripete gli annunci, sulle tv e le radio locali, della fine di quella che viene chiamata la crisi (al-azme)?”.

“In Francia, quanto è durata la rivoluzione? Dobbiamo continuare perché al-qàtil yuqtal (colui che uccide viene ucciso)”, mi dice A. E ancora: “Occhio per occhio, dente per dente. Ecco la shari’a (la legge islamica). Visto cos’è successo a Gheddafi?”.

Chi sarà il prossimo? “Saleh (Ali Abdallah Saleh, attuale Presidente yemenita)”, mi dice M.. A. afferma che “qui non arriveràrà la Nato”, ma auspica un intervento straniero (tadakkhul al-kharigi) tramite l’arrivo di osservatori (muraqibin) internazionali alle prossime (quando?) elezioni”.

Arriva il sarto. Ormai è mezzogiorno. A. ha terminato la preghiera sul tappeto steso in direzione della Mecca. Il sarto si scusa. Gli chiedo del figlio. Ancora non si sa nulla. Mi prende le misure. Pochi giorni e il lavoro sarà ultimato.

A Damasco si cerca di ritrovare il quotidiano scorrere di giornate fatte di lavoro, scuola, famiglia…interstizi di normalità tra il disordine della protesta. Che continua.

Rinnovano l’invito per una mia visita in famiglia, da loro a pranzo, con le mogli e i bambini. Arriva il padre di A. e M., anche lui con gli occhi chiari e limpidi.

Mi congedo, tornerò a trovarli. Rivolgendomi a M., che stasera sarà a Sa’ba a manifestare gli dico: “Dir balak” (stai attento). Sorride, ostenta coraggio e determinazione. “An jad, dir balak bukra (davvero, sul serio, stai attento domani)”. (L’immagine usata per la slide nella homepage è presa dall’album fotografico di Andrea Loria su Flickr)