22 settembre 2011, sera. Ho appena posato sul letto la stoffa decorata comprata lunedì, vicino alla moschea sciita di Sayda Ruqayya. Tale è rimasta. Stoffa, un telo lungo quattro metri e mezzo e largo un metro. Non è ancora uno chador. Il sarto non ha fatto il lavoro che gli avevo chiesto.
Arrivo da lui per le 16,30 circa, lavora accanto ad una moschea di cui non so il nome, ma il minareto è smeraldino, appena sulla sinistra dopo qualche decina di metri dal suq Midhat Pasha. La porta chiusa. Chiedo al rivenditore che ha il negozietto accanto: ”Dov’è il sarto?”. “Non c’è, sarebbe dovuto venire ma non è giunto. Prego, accomodati, riposati un attimo.
“Sar ‘ando mushkile…(ha avuto un problema…)”. Ed io: “Ma perché non mi ha detto che aveva dei problemi? Io son venuta qui lunedì, oggi è giovedì e io sabato parto per Beirut. Perché non mi ha detto nulla?”.
“Baas huwe ma kan ta’ref. Akhadu ibno… ‘a sijn. Al-khayat ‘ammi (Ma lui non poteva saperlo. Hanno preso suo figlio, in prigione. Il sarto è mio zio)”.
Shit. Silente e muta per qualche secondo. Il figlio del sarto è stato arrestato qualche giorno fa, lunedì o martedì. Il sarto per questo non è al lavoro. Ci guardiamo, io e il commerciante. Ha un bel sorriso. Iniziamo una conversazione non prevista, improvvisa. Nessuna mia domanda è stata decisa in anticipo, non ho griglie, non ho un percorso.
Fuma, parliamo. Inizia il discorso lui. “Lo sai com’è qui in Siria. Ti prendono e ti mettono in carcere così, senza motivo. Hanno arrestato mio cugino, e non sappiamo nemmeno in che carcere sia, dove sia. Ecco guarda – mi indica la TV, sintonizzata su al-Jazeera, seminascosta dalle giacche in pelle – picchiano e prendono studenti. Tullab min al-jamaa (studenti universitari)”.
La nostra conversazione continua per un’ora, tra persone che vanno e vengono nel suo negozio e cambiano denaro: da lire saudite a lire siriane, da dollari a lire siriane. “Ma da Beirut sapevo che guai ad usare dollari in Siria…”. “I dollari vanno benissimo, e anche l’euro”, mi risponde. Ma cade dalle nuvole quando viene a sapere che qui non riesco ad usare le mie carte VISA.
Mi conferma che sì, è vero, le carceri sono talmente piene che il regime sta usando le scuole per tenere dentro la gente che arresta. “Ma ora le scuole iniziano!” “Tanti istituti non hanno aperto. Sono pieni. Da scoppiare”.
Gli racconto della nuova Siria che vedo. Che prima avevo tanti amici che erano tutti uguali. Ora ho amici pro e amici contro, o nel mezzo. Che sono stirata tra due poli. Tra al-Jazeera e ad-Duniya (la tv satellitare pro-regime).
Che ho un amico che è stato in carcere per quattro mesi e l’hanno pestato – frattura al piede – e di cui ho letto i suoi diari dal carcere. Che un altro è di Daraa. Che un altro ha lo zio in carcere. Che anche se sono straniera, che anche se mu baladi, mu qadiyaty (non è il mio Paese, non è affar mio) tanto che chiunque mi può dire “shu dakhalek (di che ti impicci)” …io qui ho legami.
Da quattro anni. Ora vivo con una famiglia cristiana, nello stesso quartiere, ascolto storie, di gente, di persone, di esser umani che non sono da condannare perché lealisti. Perché vogliono, sognano il cambiamento. Ma hanno paura.
“Al-khawf fil damm”. La paura è nel sangue, mi diceva K., la mia amica. La paura te la instillano da bambini. Vorrei chiedere al mio amico A., appena uscito dal carcere, come si cresce da bambini, nelle file del partito.
Con lo zio del sarto parliamo della falsità delle emittenti. Solito discorso: le emittenti straniere non hanno la verità assoluta, ma si avvicinano alla realtà. Hanno obiettivi e interessi, certo. Ma la maggioranza dei siriani – ribatto – non crede alle menzogne. Prima si stava a guardare, quando tutto iniziò, sei mesi fa, a Daraa. Oggi si ha un’occasione (al-fursa). Non si può dire: “Non sapevo”, come nel 1982 quando Jisr ash-Shughur, Aleppo, Hama…
Sono sei mesi che muore gente. Mi corregge: “siamo entrati nel settimo mese”. Gli chiedo se si sappia già il nome del venerdì, domani. “Non ancora. Io bacio mio figlio e mia moglie ogni volta che vado alla muzahara (la manifestazione)”. “Ah… Tu vai a manifestare?!”.
“Si, ogni venerdì. Non so mai se ritornerò. Qarar Allah, Dio decide”.
Continuiamo a parlare. Del perché non si permetta l’ingresso ai giornalisti se non si teme la verità. Del ragazzo del video che ha sputato la foto di Bashar al-Asad che gli si poneva dinnanzi. “Huwe batal… è un eroe”.
I cristiani. Sparsi. Impauriti. Ma Michel Kilo è cristiano, e altri sono all’opposizione. “Si, ma i cristiani sono poco coinvolti”, mi dice.
L’impressione è sempre la stessa. Tante, tantissime anime. Chi contro, chi a favore, chi nel mezzo e chi ha cambiato campo. Perché? Perché una simile reazione dello Stato non è sopportabile. L’esercito contro i civili. Pallottole contro i fiori e l’acqua. Di tanta violenza – sei mesi! – la gente è stanca.
Continuiamo a parlare: l’esercito siriano in Libano (1976-2005). Racconta le violenze sulle donne, durante la guerra. Parliamo di Hasake (nord-est) e di Idlib (nord-ovest). Penso a se e quando emergeranno le denunce sulle violenze alle donne che vengono compiute qui e ora. Esercito e shabbiha (milizie lealiste) e ragazze che manifestano. “Nafs al-tartib lil nisa’. Stesso trattamento per le ragazze”.
Nel fiume di parole giunge il sarto. Sconvolto, occhi rossi, voce rotta dal pianto. Si scusa. Io vorrei solo abbracciare questo signore dalla pancia grande, che quasi mi piange davanti dicendomi che non ha potuto lavorare la mia stoffa…che il figlio è in carcere.
Mi commuovo. Ma non posso trattenermi oltre al negozio di A. Gli dico di salutarmi la moglie, anche se non la conosco. “Quando tornerai a Damasco vieni a pranzo da noi, veramente!”.
Anch’io sono sconvolta e mi distraggo. Gli tendo la mano mettendomi persino sulle punte dei piedi…e lui porta la mano al petto. Si scusa, ma sono io a scusarmi. Dopo tanti anni di pratica con i musulmani, ancora non ho imparato che non si tende la mano a un uomo. Domani lui andrà a manifestare a Midan.
“Dir balak bukra (fai attenzione domani)”.
Lascia una risposta