Dentro le prigioni di Asad

“Tanti siriani hanno visto cosa accade nelle prigioni del regime. Ma tanti di loro non sono vissuti per raccontare la loro storia come invece è successo a me che racconto la mia. Essere arrestati in Siria significa avvicinarsi alla morte fino ad arrivare a un pelo da essa”. Alise Mofrej Fadi Ziyada

Alise Mofrej è una siriana come tante: viveva con suo marito e i suoi due figli nella periferia di Damasco e lavorava come insegnante. Nel 2011 – come tanti – è stata arrestata, percossa e maltrattata per aver partecipato a una manifestazione pacifica e nel 2013 è finita in carcere una seconda volta. “La cosa peggiore della detenzione era non sapere se sarebbe mai finita”.

Di seguito la sua storia, così come la racconta lei stessa.

(di Alise Mofrej, per The New York Times. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio).
Nella primavera del 2011, centinaia di migliaia di siriani sono insorti in protesta per chiedere democrazia e libertà e la fine della dittatura del presidente Bashar al Asad. La risposta del regime è stata un’escalation nei metodi di repressione che erano stati provati e sperimentati contro oppositori politici sin dagli anni ’70: detenzioni arbitrarie, sparizioni e torture.

Lavoravo come insegnante di arabo a Jaramana, un sobborgo di Damasco, dove io e mio marito vivevamo. Eravamo entrambi attivisti in un partito d’opposizione di sinistra represso per decenni. Ho anche fondato un’organizzazione chiamata “Siriane per uno Stato di cittadinanza” che è attiva sin dall’inizio della rivoluzione. Abbiamo lavorato per creare opportunità economiche per le donne, promuovere la pace e ridurre il conflitto tra fazioni armate a livello locale.

Il 20 luglio 2011 sono stata arrestata per la prima volta, per aver partecipato a una manifestazione pacifica nel centro di Damasco. Insieme ad altri sei attivisti sono stata presa a pugni e picchiata con un bastone elettrificato da parte di membri degli shabbiha, la milizia baathista leale alla famiglia Asad. Il regime ha dato a questi teppisti carta bianca perché terrorizzassero chiunque fosse sospettato di avere simpatie per l’opposizione. Ci hanno molestato e maltrattato, prima di consegnarci alla polizia.

Siamo stati trattenuti dal braccio di sicurezza criminale – di fatto, la polizia segreta – per dodici giorni, e poi siamo comparsi in tribunale davanti a un giudice, che ci ha concesso la cauzione. In seguito abbiamo ricevuto convocazioni ma non ci siamo mai presentati. Alla fine la causa contro di noi per “manifestazione illegale” è stata lasciata cadere.

Mentre la situazione della sicurezza si deteriorava nel corso del 2012, le tattiche del regime si sono fatte più dure. Secondo alcune stime, oltre 200 mila persone sono state incarcerate come prigionieri politici, comprese migliaia di donne e persino bambini.

Il 30 dicembre 2013 sono stata arrestata di nuovo, quando sono andata all’ufficio passaporti per fare domanda di un visto per partecipare a una conferenza di donne sponsorizzata dalle Nazioni Unite. Un mandato d’arresto è stato emesso anche per mio marito, ma lui è riuscito a nascondersi per il periodo della mia seconda detenzione. Stavolta sono stata licenziata dal mio posto di lavoro.

La cosa peggiore della detenzione era non sapere se sarebbe mai finita. Sarei potuta morire in ogni momento – i prigionieri muoiono a decine ogni giorno per le conseguenze delle torture. Mi sento fortunata a essere ancora viva.

Eravamo isolati dal mondo esterno e non potevamo vedere gli avvocati. Per più di un mese ho condiviso la cella della prigione con oltre 30 donne che erano tutte detenute con diverse accuse, per le loro attività di soccorso nelle zone assediate, o per i legami personali o famigliari con membri dell’opposizione armata, oppure in seguito a un rapporto di sicurezza falso. La cella misurava meno di 5 metri quadri, buia e fredda, senza aerazione.

La tortura era una routine. Chiunque sia stato detenuto nelle prigioni di Asad conoscerà questi dettagli. Ci sono circa 40 tecniche documentate, tra cui il sospendere per le braccia i prigionieri dal soffitto, la scosse elettriche, le botte, le bruciature con le sigarette e le unghie strappate. Le urla dei torturati erano insostenibili: ho quasi perso la testa lì dentro.

Oltre 60 uomini erano tenuti in una cella vicina. A prescindere dall’accusa, le guardie ci chiamavano tutti “terroristi” e picchiavano chiunque. Il numero dei detenuti scendeva perché qualcuno moriva, e risaliva perché ne venivano portati altri. Alcuni erano obbligati a dormire accanto ai cadaveri prima che si rimuovessero i morti. Tra i vivi, i nostri corpi esausti erano infestati dai pidocchi, avevamo eritemi e infezioni della pelle.

Sono stata fortunata a non aver ricevuto sevizie fisiche, a differenza di una dottoressa detenuta con me che era stata falsamente accusata di aver rapito un soldato dell’esercito siriano. L’hanno appesa per i capelli invece che per i polsi, continuando a gettarle addosso acqua fredda e a darle scariche di elettricità finché una volta ha perso conoscenza per giorni.

Eravamo interrogati per lunghe ore, e gli inquisitori ci tenevano in una condizione di stress tutto il giorno e tutta la notte. Venivo bendata, ammanettata e trascinata nella stanza dell’interrogatorio. Il responsabile dell’interrogatorio mi schiaffeggiava in volto più e più volte, ordinandomi di firmare fogli bianchi a cui avrebbe poi potuto aggiungere false confessioni.

Durante questa seconda detenzione di circa 40 giorni sono stata trasferita da una struttura a un’altra, finché sono stata fortunata abbastanza da essere rilasciata in una delle prime “riconciliazioni”, un accordo di cessate-il-fuoco tra l’esercito e i ribelli. Queste riconciliazioni avvenivano spesso dopo che il regime aveva messo sotto assedio una zona e costretto la popolazione alla fame. La resistenza armata doveva allora deporre le armi e cedere il controllo della zona secondo i termini dell’accordo, che includeva scambi di prigionieri.

Una volta fuori, mio marito – che era rimasto soltanto per via dei nostri due figli – è fuggito attraverso il confine in Libano. Io sono stata confinata a Damasco e mi è stato impedito di viaggiare. Siccome la legge siriana non riconosce i diritti delle donne, ho anche perso la tutela dei miei figli. Alla fine un giudice mi ha concesso la custodia temporanea e un permesso di viaggio temporaneo. Così siamo partiti per Beirut e abbiamo fatto richiesta d’asilo, ma siamo fermi, senza lavoro e con i nostri figli ancora fuori dalla scuola.

Noi, noi che abbiamo visto l’interno delle carceri di Asad, facciamo appello alla comunità internazionale perché si erga contro la catastrofica brutalità in Siria, e faccia pressione su tutte le parti per ristabilire i negoziati politici basati sui colloqui di pace di Ginevra del 2014. Il primo passo verso una soluzione dev’essere la fine delle uccisioni, delle detenzioni e delle sparizioni. A osservatori internazionali dev’essere permesso di visitare le prigioni per monitorare la condizione dei detenuti.

Nonostante l’atroce situazione della sicurezza, intendo tornare in Siria se ne avrò l’opportunità. In ultimo dovrà esserci una fine a questo terribile conflitto armato, e io credo che per garantire i loro diritti, anche le donne siriane devono avere un ruolo nel negoziare qualunque accordo finale. (The New York Times, 3 febbraio 2015)