Destino libanese per la Siria post-Asad?

Le prossime settimane saranno più decisive per la Siria di quanto non lo siano stati questi quasi otto mesi di proteste e repressione, scaturiti in rivolta e, ormai, in guerra civile.

Lunedì prossimo sarebbe scaduto l’ultimatum, imposto di fatto dalla Lega araba lo scorso 16 ottobre alle autorità di Damasco, perché partecipassero entro lunedì prossimo 31 ottobre a una conferenza di dialogo con le opposizioni all’estero e in patria. In extremis, la delegazione inter-araba ha concesso agli al-Asad maggio tempo, prevedendo un nuovo incontro domenica prossima, 30 ottobre.

Secondo il documento consegnato il 26 ottobre 2011 al presidente Bashar al Assad dalla delegazione della Lega Araba, il regime deve metter fine alla repressione militare e poliziesca (oltre 3.500 uccisi), liberare tutti i prigionieri fatti in questi mesi (dalle dodici alle ventimila persone scomparse) e consentire l’accesso di osservatori arabi che verifichino il reale avanzamento delle riforme politiche promesse da Damasco.

Difficile immaginare che gli Assad possano accettare simili condizioni. Si registrano però i primi timidi scricchiolii nella coalizione orientale filo-Assad. Martedì, un inviato di Pechino era giunto a Damasco per avvertire che qualcosa potrebbe cambiare. I russi hanno già mandato segnali in tal senso, e il sottosegretario agli esteri siriano, Faysal Miqdad, è oggi, 27 ottobre 2011 a Mosca. Tramite il suo presidente Mahmud Ahmadinejad, l’Iran è tornato a invitare il regime siriano a soddisfare le richieste del suo popolo.

Non che cinesi, russi e iraniani si siano improvvisamente accorti della mattanza in corso in Siria. Piuttosto, le rispettive cancellerie stanno correndo ai ripari di fronte a una situazione che, giorno dopo giorno, sembra scivolare fuori dal controllo di Damasco.

Secondo le fonti degli attivisti anti-regime, almeno dieci civili al giorno risultano uccisi dalle forze lealiste, mentre solo nelle ultime 48 ore più di una dozzina di militari governativi sono stati uccisi e altri sei sono stati feriti in tre diversi agguati tesi da disertori nella regione nord-occidentale di Idlib e in quelle centrali di Homs e Hama.

Tutte zone costellate di località minori dove è in atto un vero e proprio conflitto armato. Altri attivisti giunti a Beirut negli ultimi giorni e in fuga dalle periferie di Damasco raccontano di «sacche di militari disertori» presenti nella Ghuta orientale, la cintura – un tempo verdeggiante – attorno alla capitale, da decenni soppiantata da una distesa di edifici abusivi che formano i sobborghi cittadini, da mesi epicentro della rivolta. I locali proteggono i militari disertori e «assieme resistono a circa 40mila agenti delle forze lealiste» che circonderebbero la vasta area suburbana.

Poche ore prima dell’arrivo della delegazione inter-araba da Doha (dove lunedì erano accorsi anche i rappresentanti del Consiglio nazionale siriano, principale piattaforma dell’opposizione all’estero), a Damasco si è svolto ieri quello che i mezzi d’informazione ufficiali hanno definito “il Carnevale del Milione”, in riferimento alle decine di migliaia lealisti che si sono riversate a piazza degli Omayyadi.

È stata la terza mega-manifestazione pro-regime in appena dieci giorni, dopo una prima a Damasco e una seconda ad Aleppo. E oggi sarà il turno di Latakia, capoluogo della regione alawita nel nord-ovest del paese. Il regime intende così dimostrare che «la maggioranza del popolo è con Assad», proprio come aveva assicurato lunedì scorso il leader di Hezbollah, sayyid Hasan Nasrallah.

Il futuro atteggiamento del movimento sciita libanese filo-iraniano potrebbe costituire un fattore cruciale negli sviluppi siriani e regionali. Entro il 31 dicembre, gli Stati Uniti ritireranno le loro truppe dall’Iraq, in parte già oggi sotto l’influenza di Teheran. Il regime iraniano potrebbe valutare l’ipotesi di un accordo – sottobanco – con i suoi nemici giurati, Stati Uniti e Israele, per evitare di farsi trascinare, con gli Assad, nel gorgo di una guerra su più larga scala, che coinvolgerebbe prima di tutto il vicino Libano.

E che danneggierebbe tutti: turchi, sauditi, israeliani, iraniani e loro clienti libanesi. I termini dell’accordo – mediato dal Qatar, che mantiene buoni rapporti sia con gli iraniani che con gli israeliani – potrebbero prevedere l’assenso di Washington, Riyad e Tel Aviv all’influenza iraniana nell’Iraq centromeridionale e a quella turca nel nord dell’Iraq e nel nord della Siria.

In cambio, Teheran imporrebbe a Hezbollah di mantenere un profilo più basso nei confronti di Israele e di adottare toni più moderati nel consesso libanese, in vista di una fusione (non “disarmo”) del suo arsenale in quello nazionale. Così facendo verrebbero soddisfatti gli appetiti sauditi e francesi, oggi di fatto ai margini della contesa inter-libanese.

La Siria post-Assad sarebbe declassata a una comparsa mediorentale e, forse, ridotta – come il Libano – a terreno di negoziazioni tra le tre potenze non arabe del Medio Oriente. (Scritto per Europa Quotidiano del 27 ottobre 2011).