(di Martina Censi*). La letteratura può prevedere il futuro? Lo scrittore non è certo un veggente e non opera con una sfera di cristallo ma con le idee e l’inchiostro, tuttavia non si può negare il ruolo che il romanzo svolge nell’interpretazione e, a volte, nella previsione della realtà. Se si volge lo sguardo alle opere letterarie di scrittori siriani della nuova generazione, si nota come esse siano incentrate sulla critica di quegli aspetti della società che sono il bersaglio della rivolta in atto.
Tra queste si colloca il romanzo del 2009 Kursî (“Sedia”), di Dima Wannus, scrittrice e giornalista siriana, in cui viene presentata un’analisi brillante di uno dei problemi che attanaglia la società siriana contemporanea: l’arrivismo e l’opportunismo degli affiliati al potere. In quest’opera la scrittrice rappresenta il mondo di un impiegato di mezza età che lavora come giornalista al soldo del regime siriano. Il protagonista sogna di sedere sulla “sedia”, nel posto a tavola accanto a un ministro, in occasione di una cena di lavoro. La narrazione ruota attorno ai preparitivi di Durgham, questo il nome del protagonista, in vista della serata che ai suoi occhi potrebbe rappresentare la svolta della sua vita. Nella sua logica di mediocre servo del potere, il solo fatto di sedere accanto a un pezzo grosso del sistema sarebbe sufficiente a fargli sbarcare il lunario.
Il lettore viene condotto nel suo universo interiore, reso attraverso la descrizione minuziosa, quasi maniacale, di tutti i suoi gesti e delle operazioni che compie in previsione del raggiungimento del suo obiettivo: comprare un abito nuovo, indossare l’orologio d’oro, portare in dono al ministro una bottiglia di whisky custodita gelosamente per anni nel fondo di un armadio, in attesa di un’occasione speciale. Nulla viene lasciato al caso e per evitare qualsivoglia errore, Durgham annota tutte le tappe della preparazione in un piccolo quaderno, unico elemento con il quale riesce ad instaurare un vero dialogo e ad esprimere se stesso, quasi in uno sdoppiamento della personalità.
Le canzoni di Fairuz e Asmahan accompagnano il personaggio in peregrinazioni nelle vicende del suo passato, come se questa giornata segnasse il passaggio da una vita precedente ad una vita futura, completamente diversa: la vertigine che separa la vita dalla morte.
Uno degli aspetti più interessanti del romanzo è l’analisi del corpo che, scomposto in una serie di funzioni fisiologiche, come defecazione e minzione, fornisce una rappresentazione quasi animale del protagonista. Ed è proprio attraverso questa disgregazione del corpo che Dima Wannus mette in scena l’assenza della parola: l’impossibilità di affermare una parola libera, connessa con la propria interiorità. L’incapacità di esprimersi del protagonista – ora rappresentato come un bambino, ora più prossimo all’animale – è riconducibile al fatto che, in assenza di libertà, non esiste nemmeno la possibilità di evolversi in quanto esseri umani, di creare una relazione con se stessi e di conseguenza con gli altri.
Con l’obiettivo di avvicinarsi sempre di più alla vetta del potere, Durgham rinuncia ad ogni relazione veramente umana della sua vita: quella con la famiglia d’origine che abbandona per trasferirsi a Damasco; quella con un compagno di università, attivista politico, che decide di denunciare alle autorità; e infine l’unica sua relazione sentimentale, con una giornalista francese.
L’ironia che pervade l’opera aiuta però il lettore a mantenere una certa distanza dal personaggio, evitando di lasciarsi andare a facili prese di posizione. Come afferma la stessa Wannus nel corso di una recente intervista da me svolta: “questo personaggio rappresenta esattamente la vittima di tutti i regimi dittatoriali del mondo. Prendendo un giornalista qui, un attore là, uno scrittore, si può studiare il modo in cui questi regimi trattano i popoli e di come si crei questo alone di sacralità. Di come il regime diventi sacro e di come tutti lavorino per soddisfarlo”. E alla fine ci si rende conto che Durgham è un essere umano impastato di fragilità e paure e che, tutto sommato, non è poi così facile odiarlo.
Il messaggio ultimo del romanzo è, come ribadisce Dima, che “la soluzione per uscire dalle crisi del mondo arabo è comprendere queste persone, senza odiarle, senza accusarle”.
Lasciandosi trasportare dalla lettura ci si rende conto di come la sedia, metafora del potere, della corruzione e del clientelismo, sia in realtà il vero motore della narrazione, anche se fa la sua comparsa solo alla fine del libro: “La maggior parte di quelli che ottengono incarichi importanti diventano più grassi, a causa dello star a lungo seduti su una sedia. Ogni professore universitario possiede una sedia all’università, che dà diritto a uno dei suoi figli di sedervisi sopra, perfino se i voti del diploma sono mediocri. Il capofamiglia in casa possiede la sedia più grande, posizionata a capotavola. La sedia sopporta tutte le natiche che vi si gettano sopra. Le natiche grasse e flosce, che emanano odori disgustosi, e quelle morbide e lisce che posseggono alcune donne. Natiche tiepide e fredde, pesanti e leggere. Questo indipendentemente dal valore della sedia, che sia costruita in legno, metallo o pelle. Ma resta solo una sedia. È la natica a conferirle importanza.”
* Martina Censi, studentessa di dottorato all’Università di Venezia Ca’ Foscari e all’Inalco di Parigi. Si trova attualmente a Beirut.
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