Giornalisti italiani in Siria – la polemica

Pubblichiamo con piacere il commento di Francesco De Leo di Radio Radicale alle mie critiche mosse a lui e al suo collega Gianni Perelli de L’Espresso circa un loro collegamento radio del 20 settembre scorso da Damasco. Qui sotto la mia replica:

Caro Francesco,

non hai avuto modo di passare a trovarmi qui a Beirut (conosci i miei numeri), ma questo mio commento al vostro collegamento radio mi dà comunque l’opportunità di confrontarmi con te, anche se a distanza.

Rispondo alle tue parole, prima di tutto ricordandoti che il mio commento non si riferisce ai vostri servizi ancora in lavorazione, semplicemente perché non ho avuto il piacere di ascoltarli o di leggerli. Le mie parole, come era chiaro nel testo, si riferivano al vostro collegamento radio del 20 settembre.

Forse sulla radio c’è una rubrica in cui si intervistano i turisti che vanno in viaggio per il mondo e raccontano le loro prime impressioni dalla finestra dell’albergo, ma mi era sembrato di capire che fosse un collegamento per informare gli ascoltatori. Che fosse un servizio giornalistico. Da ascoltatore, da collega e da specialista di questioni siriane ho tutto il diritto di commentare, criticare e anche di “incazzarmi”. Di seguito spiego il perché.

Prima ci tengo però a spiegare perché “ci vado pesante”, perché “tutta sta incazzatura”: in Siria da oltre sei mesi è in corso una mattanza contro civili da parte del regime. E’ un fatto, non è una mia opinione né il frutto di manipolazioni mediatiche o di complotti stranieri. Se anche su questo non siamo d’accordo sono pronto a dedicare un’altro carteggio solo a questo tema cruciale.

Detto questo, a fronte di un numero elevato di civili uccisi, molti dei quali in modo barbaro, e a fronte di numerosi altri scomparsi nelle segrete del regime, vedere te e Perelli immortalati dall’agenzia Sana assieme a Talal (di lui non mi stupisco, poi spiego perché) e vedere, il giorno dopo, l’apertura dei giornali governativi “Delegazione giornalistica italiana si reca sul luogo delle rovine delle azioni di vandalismo a Daraa” con un testo dell’articolo in cui di fatto vi fanno dire che “sì, è vera la tesi del complotto”… beh, c’è n’è di materiale per scrivere due righe, anche “incazzate”.

Mi chiedo: da quando il nostro lavoro è quello di essere strumento e portavoce (inconsapevole?) di criminali? E’ vero: l’unico modo oggi di entrare con un visto giornalistico in Siria è quello di essere “embedded”, di esser scortati dalle mukhabarat a vedere “le tracce del vandalismo dei terroristi”.

E’ un’escamotage a cui si può ricorrere a patto di raccontare poi il tutto in modo critico. E son sicuro che nei vostri servizi audio e cartacei questo emergerà. Ma se il prezzo da pagare per questo “tour della propaganda del regime” è quello di esser usati dallo stesso regime per cercare legittimazione interna ed estera… beh, questo dovrebbe farti riflettere sul senso delle ore da te trascorse a Damasco.

Su Talal. Lo conosco dal 1996, quando ero ancora un ingenuo studente di arabo e lui cercava giovani da arruolare per la gloria nel suo Assadaka. Nel corso degli anni ci siamo incontrati spesso e ho raccolto numerose testimonianze sulla qualità del suo lavoro e sulle sue reti di conoscenze in Libano e altrove. Da quando sono a Beirut, ho avuto modo di arricchire il profilo di Talal. Ho anche lavorato nella stessa sala della stampa estera a Beirut con lui. Ho fatto il traduttore per un paio di servizi Rai quando lui era il fixer. Conosco bene il fratello e l’ambiente familiare. Quando scrivo di queste cose, come di Siria – fidati – parlo a ragion veduta.

E a proposito di “titoli”: mi dici che esser Socio della Stampa estera di Roma è una patente di professionalità giornalistica. Con tutto il rispetto per il quotidiano beirutino as Safir di cui Talal è “corrispondente in Italia”, anche il corrispondente della Sana siriana e di al Ahram (era Mubarak) hanno quel tesserino romano. Come al Cape, in Francia, oppure qui a Beirut, bastano lettere di accreditamento e tesserino stampa per entrare in via dell’Anima. non ti chiedono di esibire il Pulitzer. Sulla sua appartenenza ad as Safir, perché non chiedi ai colleghi del giornale di Hamra cosa pensano di Talal? Ma non intervistarli, parlaci confidenzialmente.

Su Perelli. Non lo conosco e il mio giudizio si ferma alle parole che ho sentito nel suo collegamento radio. Il fatto che sia stato più volte in Siria e che abbia intervistato Assad non vuol dire che conosce a fondo il Paese. L’intervista con Assad – parole di Talal alla stampa estera di Beirut – gliela organizzò proprio lui, vicino di Amal di Berri, socio di Damasco.

Nel collegamento citavate anche membri dell’opposizione. Prima di tutto, quali veri oppositori il regime consente di far incontrare con giornalisti stranieri? Da quanto avete detto in quei quattro minuti di collegamento, il messaggio dell’opposizione siriana è che “il vero cancro del regime è… la corruzione”. Da qui capisco che non solo eravate appena arrivati, ma forse eravate stati catapultati dal Pianeta Rosso. Dove per dire “crimini contro i civili”, “uccisioni sotto tortura”, “unghie staccate” e “testicoli elettrificati” si usa il termine… “corruzione”. E’ questo il servizio informativo offerto agli ascoltatori?

E ancora: non sapere che la moschea degli Omayyadi (nemmeno come si pronuncia!) è nel mezzo del mercato coperto e che non può essere circondata dai carri armati è un errore, che un giornalista – uno dei pochi a stare a Damasco con accredito ufficiale e in un periodo così delicato! – non dovrebbe commettere nel rispetto del suo ruolo informativo nei confronti di chi ascolta o legge.

E poi scusa: bastava fare i compitini a casa o, in aereo, aprire la Lonely Planet e studiarsi la mappa di Damasco, leggersi la parte riassuntiva (“Cosa vedere se si hanno solo cinque giorni a disposizione”)… beh, lì trovavi la descrizione della Moschea degli Omayyadi e la sua posizione.

Quel giorno, poi, al Jazira non ha dato quella notizia. Dal 2006 vivo parecchie ore al giorno anche di fronte a tre schermi televisivi sempre accesi, a monitorare costantemente le tv panarabe. Dal 15 marzo 2011 seguo minuto per minuto la rivolta siriana, anche tramite al Jazira e al Arabiya oltre che tramite la tv di Stato e la Sana.

Mi posso comunque sbagliare. Per questo l’indomani ho cercato traccia di quella presunta notizia data da al Jazira sui carri armati attorno agli Omayyadi… ma non ho trovato nulla. Forse devi cambiare fixer e traduttore. O forse è bene che quando ci si reca, da giornalista per un reportage, a Berlino si parli almeno l’essenziale di tedesco, a Mosca il russo. E a Damasco l’arabo. E questo lo dico con tutta la spocchia di chi da 13 anni è tra Damasco e Beirut. La spocchia di chi ritiene che l’interpretazione delle fonti (orali, scritte) non sia una necessità accademica ma anche giornalistica.

In Italia ancora vige la malattia di dividersi tra “giornalisti” (generalisti, “tuttologi del nulla”) e “esperti” (che “parlano complicato”, accademici che non sanno divulgare…). La tua frase “del resto il mondo è pieno di esperti” mi fa pensare che anche tu sei affetto da questa malattia, ma sappi che all’estero, esiste una figura molto semplice e rispettata: “giornalista specializzato”.

E’ questa figura – e non altri improvvisati – che sono incaricati di raccontare ai lettori del loro Paese. In Italia no. Siamo spesso in balia di turisti allo sbaraglio, con un evidente danno alla qualità dell’informazione giornalistica nostrana.

Per fortuna scorgo un po’ di speranza: la mia generazione e soprattutto quella successiva sono ricche di arabisti giornalisti. Che si sono formati nelle scuole universitarie di arabo, che non hanno fatto l’Erasmus a Barcellona ma si sono rovinati l’intestino a Damasco o i polmoni ad Amman.

Che si muovono, da freelance per scelta altrui (“è la crisi, abbiate pazienza!”) tra le vie di Sham meglio di tanti senior dei grandi gruppi editoriali. Non avranno apprezzato i lucidi marmi di Carrara del Palazzo del popolo di Assad, ma non hanno bisogno di fixer per decifrare e raccontare al meglio quei luoghi. Due di loro, padroni dell’arabo e della città, sono ancora lì, sotto copertura e con pseudonimo, a raccontare la rivolta siriana. Uno ha visto gente morire di fronte ai suoi occhi venerdì scorso. Ma non avrà mai l’onore – come voi tre – di apparire sulla Sana, sul Tishrin, su al-Ba’th e su al-Thawra.

Buon lavoro.