(di Lorenzo Trombetta) I colpi dei fucili automatici in lontananza rompono la quiete dominata dal suono del piccolo corso d’acqua che separa il Libano dalla Siria, mentre si avvicina una jeep militare siriana dall’altra parte del Grande Fiume e sullo sfondo si distinguono i sobborghi di Homs, epicentro della repressione in corso da dieci mesi e da cui sono finora giunti qui, nella regione libanese di Wadi Khaled, migliaia di profughi. Il Wadi (la valle) è un dito di terra libanese che si infila nella regione di Homs.
“Siamo tutti parenti, anche se in Paesi diversi”, ammette Rami Khazzal, sindaco di Muqayble, una delle municipalità. Khazzal ci indica dove sono rifugiati alcuni abitanti di Hit, villaggio siriano di un migliaio di anime a meno di un chilometro di distanza “e ora occupato dall’esercito di Damasco”.
“Alcuni sono miei cugini”, dice il sindaco parlando con l’ANSA. “Hanno doppia cittadinanza, ma hanno la residenza in Siria”. Il calore della sobia – le stufe locali alimentate a mazot, oleoso e puzzolente combustibile domestico – accoglie l’ospite straniero, invitato a togliersi le scarpe per sedersi in mezzo al gruppo sui tappeti, vicino alla stufa, sul quale sono poggiati due bricchi. “Tè o caffè?”.
Due donne e una bimba si alzano e lasciano la stanza. Rimangono gli uomini. Due di loro sono di Hit. “Sono scappato con tutta la famiglia dopo che mio figlio, Nizar, di 13 anni, è stato ferito alla gamba, investito da un mezzo militare”. L’uomo, che chiede di non esser citato con nome e cognome, afferma che Hit è quasi vuota. “La maggior parte sono tutti fuggiti nel Wadi”.
I campi minati lungo la riva nord-orientale del Grande Fiume sono una novità. Le mine sono state piazzate all’inizio dell’autunno dalle forze siriane per impedire l’ingresso di armi e la fuga di civili. Per il sindaco di Muqayble, “non c’è contrabbando di armi”. Ammette che chiunque a casa ha un fucile “per difesa personale” e che se suo cugino, dall’altra parte del fiume, avesse bisogno di un arma, non esiterebbe a passargliela.
Un chilometro più a est c’è l’unico ponte della zona, usato fino al maggio scorso dagli abitanti del Wadi e da quelli provenienti da Tell Kalakh, località sunnita pesantemente colpita dalla repressione. L’area è ora deserta. Il ponte è diviso da una barriera di filo spinato. In un container sono rintanati alcuni soldati libanesi. “Col freddo e con la pioggia non mettono il naso fuori”, afferma Zamel, adolescente libanese accompagnato da un coetaneo di 13 anni, siriano, di Homs.
Giocano tra le pozzanghere, con indosso un maglione di cotone e sandali ai piedi. Indicano sui muri i fori delle pallottole sparate dai soldati siriani dall’altra parte dell’antico ponte in pietra nera. “Di notte fuggiamo. Non possiamo stare qui”, Zamel indica la sua casa sulla riva del fiume. Il compagno di giochi, con più innocenza del sindaco di Muqayble, ammette che “di recente carichi di armi, Rpg e altro, sono passati di notte. Ci sono battaglie tra la resistenza e l’esercito (regolare)”. Si parla di “resistenza” in riferimento ai gruppi di soldati disertori a cui si uniscono con ormai sempre più frequenza civili delle zone più colpite dalla distruzione delle forze lealiste.
Dall’altra parte Wadi si apre il valico ufficiale con la Siria. Una gigantografia del presidente Bashar al Assad in mimetica e occhiali da sole nasconde la vista delle case del primo villaggio siriano dall’altra parte. “Qui passano solo gli alawiti”, afferma Abu Rami, conducente del minibus che collega il Wadi con Beirut, in riferimento ai membri della minoranza sciita a cui appartengono i clan al potere in Siria. Wadi Khaled è abitato in prevalenza da sunniti, di origini tribali, e sul lato siriano ci sono villaggi misti, cristiani, sunniti e alawiti.
Uno di questi è Mushayrafe. Molti dei suoi abitanti hanno cittadinanza libanese e ogni giorno vi si recano, come nei posti di lavoro in Libano. Tra le due sponde del Grande Fiume la tensione è però drammaticamente salita a fine dicembre, quando tre giovani – due siriani di Hit, profughi, e un libanese di Muqayble – sono stati uccisi in un agguato teso, affermano dalla parte sud del Wadi, dall’esercito siriano e dagli shabbiha, le milizie alawite lealiste.
Il crimine è avvenuto in pieno territorio libanese, al di qua del Grande Fiume: una pattuglia dell’esercito di Damasco ha guadato il corso d’acqua e ha stabilito un posto di blocco alla periferia di Muqayble. I giovani – racconta il sindaco Khazzal – sono stati chiamati con un pretesto verso Mushayrafe e la loro auto è stata crivellata di colpi dagli shabbiha. “Abbiamo i nomi degli assassini. Sono tutti di Mushayrafe. 13 alawiti e un sunnita”.
Da allora, le famiglie degli uccisi (i fratelli Ahmad e Kasser al Zayd e Maher Abu Zeid) hanno organizzato ronde per impedire a tutti gli abitanti di Mushayrafe di valicare il confine, impedendo a molti di recarsi al lavoro. “Fino a quando non saranno consegnati i colpevoli”, afferma il rifugiato di Hit. “Fino a quando il prezzo del sangue non sarà pagato”. (Scritto per ANSA il 12 gennaio 2011).
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