(di Lorenzo Trombetta, Ansa). Un Iran più forte e alleato dell’Occidente, anche in funzione anti-Stato islamico (Isis), rischia di non essere un fattore di stabilità in Medio Oriente. Ma potrà invece scatenare le reazioni dei rivali storici di Teheran in tutti i teatri in cui il drammatico conflitto regionale è in corso. Ciò potrà portare più violenze e più atti di terrorismo, secondo diversi esperti dell’area.
Intimoriti da un Iran ora non più strozzato dalle sanzioni, l’Arabia Saudita e i suoi alleati sono sul piede di guerra. Secondo la stampa britannica, che oggi cita fonti di Riad, il regno del Golfo minaccia di avviare un proprio piano nucleare. Sulla stampa mediorientale e sui social network si sono intanto scatenate polemiche e dibattiti tra chi è convinto che Teheran svolgerà il ruolo di pompiere dell’incendio regionale, e chi invece si dice preoccupato delle conseguenze di un più audace e muscolare interventismo iraniano nelle contrade arabe in fiamme.
Mentre in Yemen la campagna aerea guidata dall’Arabia Saudita del nuovo re Salman proseguirà contro i miliziani filo-iraniani, un Siria il conflitto intestino ha mietuto più di 220mila morti. E ha di fatto costretto la metà dei siriani a lasciare le proprie case, in patria o all’estero.
In questa guerra l’Iran ha da tempo investito molte risorse: aiuti petroliferi e prestiti ma anche consiglieri militari, Pasdaran e milizie libanesi, irachene e afghane tutti impegnati a puntellare il sistema di potere incarnato dalla famiglia Assad, al comando da oltre quarant’anni.
L’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia sono invece in prima linea nel sostegno a varie fazioni di oppositori armati siriani. Privi di un sostanziale aiuto occidentale, questi miliziani nel corso degli anni si sono radicalizzati. Alcuni per convinzione altri per necessità hanno ormai sposato la causa jihadista. In Iraq, l’Iran e gli Stati Uniti, assieme a Francia e Gran Bretagna, già partecipano alla coalizione internazionale anti-Isis.
La convergenza di interessi esiste ma potrebbe essere formalizzata da accordi politici più strutturali in nome della “lotta al terrorismo”. Ne rimarrebbero fuori le potenze del Golfo, espressione della comunità sunnita sempre più nostalgica del baathismo e a cui di fatto nel 2003, con il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, è stato tolto il potere.
L’Isis non rimarrà certo a guardare. E continuerà a capitalizzare il malcontento sempre più dilagante di ampie porzioni di Medio Oriente dominato da un sunnismo rurale, di stampo conservatore e tribale.
Questa marea sunnita, spesso ignorata da chi si preoccupa delle “minoranze” della regione, si sente da troppo tempo abbandonata dai poteri centrali, descritti come complici dei “neosafavidi” – gli iraniani – e tradita dagli Usa ormai “in combutta con i persiani”. E molti di quei giovani arabi che nel 2011 scesero in piazza per chiedere riforme e giustizia sociale, accettano ora con meno remore il passaggio jihadista verso il “paradiso dei martiri”. (Ansa, 15 luglio 2015)
Riguardo all’accordo raggiunto con l’Iran sul dossier nucleare si assiste ad uno spettacolare rovesciamento di senso dell’accordo stesso.
Prima dell’accordo si sosteneva che la (presunta) corsa iraniana a dotarsi dell’arma atomica avrebbe indotto i suoi tradizionali avversari a volersene dotare a loro volta; ora che con l’accordo l’Iran si impegna a ridurre le sue potenzialità di arricchimento dell’uranio e a sottoporsi ai controlli internazionali si afferma, come prima, che ciò spingerà i suoi avversari sunniti a dotarsi dell’arma atomica.
Sembra di assistere ad una ben confezionata operazione di guerra psicologica.
Infatti, ad un lettore fiducioso, poco attento o poco propenso a spendere il suo tempo per vagliare criticamente ciò che la corrente dei mass media porta alla sua attenzione, non rimane altra conclusione che, accordo o non accordo, bomba o non bomba, è l’esistenza stessa dell’Iran a costituire un pericolo. Dunque, delenda Teheran, sempre e comunque.
Ovviamente non si fa cenno al fatto che questo approccio non aumenta per nulla la sicurezza nella regione, e tantomeno la sicurezza di Israele.
Non si fanno analisi, nemmeno distratte o superficiali, sull’ipotesi di un conflitto regionale contro l’Iran: un paese di 70 milioni di abitanti, con un terreno assai difficile da controllare, con una cultura poco propensa alla resa e con un regime ancor meno propenso dei suoi governati ad accettare una eventuale sconfitta.
Quelli che sognano, o suggeriscono in modo obliquo, una guerra che domi definitivamente e in breve tempo l’Iran e spenga le paure di chi lo teme, o non sanno di che parlano o sono dei criminali ai quali probabilmente centinaia di migliaia, forse milioni di vittime, non fanno né caldo né freddo. Una concezione valoriale della vita umana che evoca tragici e non troppo antichi ricordi.
Fuori dalle psyop, alle quali SiriaLibano sembra voler dare il suo contributo, la realtà è del tutto diversa: l’accordo faticosamente raggiunto diminuisce, se non annulla, la (presunta) minaccia nucleare iraniana. Rispetto a prima la diminuzione del rischio (benché presunto) è oggettivamente un fatto.
Ma allora per quale motivo il regime israeliano, le sue lobbies, i suoi collaterali, stanno mettendo in campo tutta la loro influenza per farlo fallire?
Esiste una sola risposta possibile: perché il loro obiettivo è sempre stato quello di provocare una guerra degli USA contro l’Iran o, in subordine, perché lo spauracchio della minaccia esistenziale contro Israele giova alla presa dell’ideologia sionista sia verso i cittadini israeliani sia verso la Diaspora.
L’implacabile e mortale nemico esterno che minaccia l’esistenza del popolo è un classico caposaldo delle ideologie simili a quella sionista. Ideologie che hanno dato i frutti che ben conosciamo, che di certo non hanno giovato ai popoli che le hanno abbracciate.
Mi chiedo perché SiriaLibano si presti a supportare una corrente ideologica di questo genere.