La grande guerra continua

Al confine tra Kurdistan e Stato Islamico, Qaraj, Iraq (Lorenzo Trombetta, 2015)

(di Lorenzo Trombetta, Ansa). Un Iran più forte e alleato dell’Occidente, anche in funzione anti-Stato islamico (Isis), rischia di non essere un fattore di stabilità in Medio Oriente. Ma potrà invece scatenare le reazioni dei rivali storici di Teheran in tutti i teatri in cui il drammatico conflitto regionale è in corso. Ciò potrà portare più violenze e più atti di terrorismo, secondo diversi esperti dell’area.

Intimoriti da un Iran ora non più strozzato dalle sanzioni, l’Arabia Saudita e i suoi alleati sono sul piede di guerra. Secondo la stampa britannica, che oggi cita fonti di Riad, il regno del Golfo minaccia di avviare un proprio piano nucleare. Sulla stampa mediorientale e sui social network si sono intanto scatenate polemiche e dibattiti tra chi è convinto che Teheran svolgerà il ruolo di pompiere dell’incendio regionale, e chi invece si dice preoccupato delle conseguenze di un più audace e muscolare interventismo iraniano nelle contrade arabe in fiamme.

Mentre in Yemen la campagna aerea guidata dall’Arabia Saudita del nuovo re Salman proseguirà contro i miliziani filo-iraniani, un Siria il conflitto intestino ha mietuto più di 220mila morti. E ha di fatto costretto la metà dei siriani a lasciare le proprie case, in patria o all’estero.

In questa guerra l’Iran ha da tempo investito molte risorse: aiuti petroliferi e prestiti ma anche consiglieri militari, Pasdaran e milizie libanesi, irachene e afghane tutti impegnati a puntellare il sistema di potere incarnato dalla famiglia Assad, al comando da oltre quarant’anni.

L’Arabia Saudita, il Qatar, la Turchia sono invece in prima linea nel sostegno a varie fazioni di oppositori armati siriani. Privi di un sostanziale aiuto occidentale, questi miliziani nel corso degli anni si sono radicalizzati. Alcuni per convinzione altri per necessità hanno ormai sposato la causa jihadista. In Iraq, l’Iran e gli Stati Uniti, assieme a Francia e Gran Bretagna, già partecipano alla coalizione internazionale anti-Isis.

La convergenza di interessi esiste ma potrebbe essere formalizzata da accordi politici più strutturali in nome della “lotta al terrorismo”. Ne rimarrebbero fuori le potenze del Golfo, espressione della comunità sunnita sempre più nostalgica del baathismo e a cui di fatto nel 2003, con il rovesciamento del regime di Saddam Hussein, è stato tolto il potere.

L’Isis non rimarrà certo a guardare. E continuerà a capitalizzare il malcontento sempre più dilagante di ampie porzioni di Medio Oriente dominato da un sunnismo rurale, di stampo conservatore e tribale.

Questa marea sunnita, spesso ignorata da chi si preoccupa delle “minoranze” della regione, si sente da troppo tempo abbandonata dai poteri centrali, descritti come complici dei “neosafavidi” – gli iraniani – e tradita dagli Usa ormai “in combutta con i persiani”. E molti di quei giovani arabi che nel 2011 scesero in piazza per chiedere riforme e giustizia sociale, accettano ora con meno remore il passaggio jihadista verso il “paradiso dei martiri”. (Ansa, 15 luglio 2015)

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