(di Lorenzo Trombetta per Europa Quotidiano). Alla ricerca di qualche appiglio nelle sabbie mobili della disinformazione sulla questione siriana, ho condotto una serie di interviste con esponenti dell’Esercito siriano libero (Esl), all’interno della Siria e all’estero, per cercare di ricostruire l’identità e la struttura della piattaforma militare e paramilitare che resiste alla repressione delle forze fedeli al presidente Bashar al Assad. Con due scoperte importanti. La prima sui numeri della ribellione, che forse negli scorsi mesi sono stati esagerati.
La seconda sulla linea di comando dei ribelli, meno frammentata di quanto si sia scritto in passato. Alla fine di marzo scorso è stata annunciata la creazione di un Consiglio militare che ha messo fine al dualismo tra i vertici dell’Esl, comandato dal colonnello Riyad al Asaad, e una piattaforma creata dal generale Mustafa al Shaykh, il disertore col più alto grado militare.
Quest’ultimo presiede il Consiglio militare, con base nel sud della Turchia, ma le operazioni sul terreno sono dirette da Asaad, anch’egli rifugiatosi nei pressi di Antiochia. Le azioni condotte sul terreno dimostrano che esiste un’unità di intenti e un seppur rozzo coordinamento centrale. Il cessate il fuoco, ad esempio, entrato in vigore il 12 aprile mattina, è stato rispettato da tutte le unità. Così come sono stati creati, in patria, dei Comitati di coordinamento locale degli attivisti (l’ala civile e mediatica della resistenza) così ci sono i Consigli locali militari, comandati da sunniti e incaricati di armonizzare il lavoro sul terreno delle varie brigate.
Chi comanda chi. Il Consiglio di Homs è diretto dal colonnello Qassem Saad ad Din (portavoce dell’Esl in patria); a Hama c’è il parigrado Afif Suleiman; nella regione di Damasco c’è il colonnello Khaled Habus e in quella orientale di Dayr az Zor il tenente colonnello Muhannad al Talaa. Dalla Turchia, Asaad e soci affermano di comandare oltre diecimila uomini, ma le testimonianze raccolte parlano complessivamente di circa seimila unità.
Queste sono ripartite in modo molto diseguale tra la regione di Homs (3.300 circa), quella di Hama (un migliaio), Damasco (un migliaio), Dayr az Zor (600 circa), Daraa (200 circa), Aleppo (un centinaio). Si tratta per la maggior parte di disertori a cui si sono unite squadre di civili colpiti a vario livello dalla repressione. La presenza di combattenti arabi, segnalata da alcune fonti di stampa ma non confermata dagli intervistati, non appare finora significativa in termini numerici.
Brigate Garibaldi. Ogni nazione ha i suoi miti e la umma islamica non fa eccezione. I sunniti di Siria, oggi il cuore e le braccia della rivoluzione, si dicono vittime da mezzo secolo della discriminazione operata dal regime dominato da alcuni clan alawiti, branca dello sciismo. La loro azione armata è difensiva (nell’islam il jihad esteriore – distinto da quello interiore, con se stessi – è sempre risposta a un’aggressione nemica). Non c’è quindi da stupirsi se le regioni dove l’Esl è più attivo sono quelle a maggioranza sunnita. E se i nomi scelti per i vari raggruppamenti paramilitari ricordano personaggi epici della tradizione islamica.
Nella regione di Homs operano la brigata Khaled ben Walid (compagno del Profeta e comandante militare delle prime conquiste islamiche nella Siria bizantina) con circa duemila uomini, e la brigata al Faruq (appellativo di Omar ben Khattab, compagno del Profeta e secondo califfo), forte di un migliaio di combattenti e protagonista dell’assedio di Bab Amro del febbraio scorso.
La Khaled ben Walid controlla cinque diverse compagnie, di 25, 50 e massimo cento unità. Due di queste sono intitolate a Hamza (ben Abdel Muttalib, zio del Profeta) e ad Ali ben Abi Taleb, quarto califfo e primo imam dello sciismo. Ci sono poi brigate e compagnie intitolate a eroi più moderni dell’islam (quella di “Saladino il Vincitore”, operativa a Daraa, non più di 50 uomini; e quella di Abulfida, attiva tra Hama e Idlib e che prende il nome dal condottiero che combatté contro i Crociati), e altre intitolate a ufficiali disertori uccisi dai governativi (Fadi Qassem, Hussein Harmush, Ahmad Khalaf).
Più singolari sono i nomi di altre brigate: la Ababil ad Aleppo (40 unità) si rifà a un versetto del Corano nel quale si parla di stormi di uccelli che nel 570 d.C. fermarono l’esercito abissino diretto alla Mecca; la brigata “Libertà di Aleppo” non conta più di 30 uomini; così come la Qashush, operativa a Hama e così chiamata in onore del pompiere e poeta popolare sgozzato dal regime.
Come per i quadri alti dell’Esl, anche quegli intermedi sono dominati da ufficiali, soldati e civili provenienti da regioni sunnite. Sono apparse nei mesi scorsi notizie di “brigate alawite” e “brigate cristiane” ma per ora il panorama della resistenza armata è dominato dal sunnismo. Che non fa rima necessariamente con fondamentalismo. Anche se da più parti i segni fisici esteriori dei ribelli – la barba – inducono alcuni osservatori a immaginare orde di fanatici fondamentalisti pronti a prendersela con i cristiani. «Non abbiamo il tempo di raderci o spesso non abbiamo le lamette», sorride Abu al Qays, sottufficiale della Faruq rifugiatosi nel nord del Libano.
Barbablù. «Così come non abbiamo divise e scarponi. Non siamo un esercito regolare… ma tutti si fissano sulla barba!». Abu al Qays ammette che c’è «anche l’esigenza di esprimere un dissenso col passato». La barba è un modo per distinguersi dal regime, che in nome del “laicismo socialista” ha vessato ampi strati della comunità sunnita. «Non combattiamo per bin Laden, ma per i nostri figli, per le vittime della barbarie». Testimonianze provenienti da villaggi cristiani e alawiti accusano l’Esl di uccidere civili innocenti alawiti sulla base della loro appartenenza confessionale.
I militari disertori respingono le accuse, usando paradossalmente la stessa retorica usata dal regime per negare i crimini contro la sua gente: «Non escludiamo che ci possa essere qualche deviazione, ma se fosse vero si tratta di episodi sporadici e non della regola», afferma il capitano Habib B. «In ogni caso perseguiamo chiunque si macchi di crimini contro gli innocenti», non escludendo che alcuni alawiti, membri di milizie filo-regime, possano esser stati «giustiziati dopo esser stati catturati».
Questi ufficiali rivendicano invece il ruolo prioritario della «protezione dei civili». «Lavoriamo per soccorrere i feriti e mettere in salvo gli sfollati oltre confine», assicura il maggiore Yahya S. «La Brigata dei siriani liberi – operativa tra Latakia e Idlib – è stata formata a giugno. Eravamo solo in dieci. Oggi siamo in 150 di cui solo 50 armati».
Non c’è bisogno di addestramento perché «la maggior parte di noi sono disertori. E i civili hanno tutti svolto il servizio di leva», obbligatorio in Siria. E poi le armi sono leggere. «Ma servono più armi!», ripete più volte un soldato in un ospedale di Tripoli scampato alle bombe di Bab Amro. «Nemmeno le cartucce ci inviano dalla Turchia!», se la prende con i vertici dell’Esl. «Se ne stanno nei loro alberghi a cinque stelle e noi qui a farci uccidere. La rivoluzione siamo noi». Annuisce Abu al Qays: «È vero, le promesse non sono state mantenute, ma il problema è politico». I vertici dell’opposizione all’estero hanno promesso «salari ai membri dell’Esl».
«I miei soldati – riprende Abu al Qaysa – non chiedono soldi ma armi. È passato un anno dall’inizio della rivoluzione e la violenza aumenta di giorno in giorno… Non abbiamo i mezzi per affrontarla». (Per Europa Quotidiano del 14 aprile 2012).
Bel pezzo, Lorenzo.
Davvero un’ottima idea la tua di “mappare” la resistenza, i combattenti.
Sfatare i falsi miti è necessario: sono solo un rigurgito di semplificazioni banali e colpevoli, ma anche ridicole se vogliamo (il binomio barba lunga-terrorista).