Finché non comprenderemo il vero significato del concetto di cittadinanza, dittature ed estremismi continueranno ad avere la meglio.
(di Hanin Ghaddar per Now. Traduzione dall’inglese di Camilla Pieretti). Per quanto Qatar e Turchia continuino a sostenere politicamente Hamas, la realtà sul campo è ormai ben diversa. Gli Stati membri del Consiglio di Cooperazione del Golfo (GCC), in particolare l’Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti, hanno mostrato chiaramente di non essere disposti a tollerare che il Qatar si intrometta negli affari del mondo arabo senza il dovuto coordinamento e consenso. Inoltre, è poco probabile che l’Iran riprenda Hamas sotto la propria ala, dato che l’organizzazione continua ad appoggiare i ribelli siriani.
Forse per questo Hamas, branca dei Fratelli Musulmani, ha ricevuto così poco sostegno dal mondo arabo nell’ultima guerra a Gaza. L’organizzazione è perfettamente consapevole di aver perso consensi e alleati, ma, mentre Israele tiene Gaza sotto il solito, inarrestabile fuoco di artiglieria, Hamas pare pensare solo a rafforzare la propria posizione nei negoziati per il cessate il fuoco: crede ancora di essere la migliore delle alternative possibili e spera che i grandi attori internazionali la pensino allo stesso modo.
Tuttavia, dati i deludenti risultati della Primavera araba, Hamas dovrebbe aver capito che oggi gli arabi della regione si ritrovano a scegliere tra due sole forme di governo: l’Islam politico o l’autocrazia. In Egitto, l’alternativa a Muhammad Morsi si è rivelata essere un colpo di stato militare; mentre le dittature in Iraq e Siria hanno lasciato il posto alla violenza estrema dello Stato islamico (Is). Le alternative ad Hamas sarebbero quindi un gruppo estremista islamico o l’Autorità Nazionale Palestinese, debole e corrotta.
Ma se la Primavera araba ci ha condotto a questa nuova realtà delimitata così, è perché non ha fatto delle libertà personali e individuali che definiscono la vera cittadinanza il cuore dei suoi principi. In generale, la retorica dell’opposizione in gran parte dei paesi coinvolti nella Primavera araba ha totalmente ignorato i diritti e le libertà e trascurato i diritti delle donne e delle minoranze. Non siamo riusciti ad agire da veri cittadini, ed ecco che oggi ci ritroviamo prigionieri delle solite vecchie storie sulla teoria del complotto.
A giudicare dai recenti sviluppi in Iraq, Siria ed Egitto, pare che in questi tre anni di Primavera araba abbiamo imparato a comprendere le nostre mancanze, ma non a colmarle. Oggi sappiamo di poter scegliere tra due diverse opzioni: o la libertà, o la sicurezza, mai le due cose insieme. Se non altro, le esperienze di questi ultimi anni ci hanno insegnato che la sicurezza tende a presentarsi sotto forma di totalitarismo: o si accetta un regime militare, oppure ci si ritrova guidati da un governante fazioso, e finché non impareremo a dare il giusto valore all’individuo, le cose non cambieranno.
Un’altra delle lezioni che abbiamo imparato è che l’Islam politico è una forma di governo insostenibile, efficace soltanto come piattaforma di opposizione popolare. Tuttavia, continuano ad aprirsi spazi vuoti e il terrore dello Stato islamico presto spingerà la popolazione ad accettare i vecchi dittatori e capi militari, in attesa che l’Occidente intervenga a risolvere il problema.
Di fatto, l’Occidente ha deciso una settimana fa che non era disposto a tollerare l’Is e poco dopo gli Stati Uniti hanno cominciato a bombardare le sue postazioni in Iraq. Il loro intervento ha fatto felici sia la gente comune sia i regimi, convinti che li attenda un futuro migliore. Ma è davvero una buona notizia? Il declino dell’Islam politico e degli estremismi potrebbe effettivamente dare nuove possibilità ai movimenti laici e democratici nei paesi arabi?
Crederci sarebbe una follia. Con l’eccezione di pochi attivisti, presto emarginati, le rivolte non sono riuscite a mirare al cuore dei nostri problemi: gran parte della gente cercava una libertà politica che non ha niente a che fare con il vero significato di cittadinanza, e raramente la retorica delle manifestazioni o dei movimenti di opposizione ha affrontato il tema delle libertà personali e individuali.
Se continuiamo a soffrire non è colpa dello Stato Islamico, dell’Islam politico o del mancato sostegno dell’Occidente. Il punto non è la contrapposizione tra Islam moderato e Islam radicale. Tutte queste questioni, incluso il conflitto sempre più sanguinoso tra sciiti e sunniti, sono il risultato di una condizione che ci definisce tutti, sciiti, sunniti, moderati ed estremisti. Il problema è che continuiamo a identificare ciecamente la democrazia con delle urne elettorali e con il diritto dei membri di partiti politici e gruppi confessionali diversi di calunniarsi l’un l’altro in televisione.
È preoccupante che un’attivista egiziana liberale, che si è opposta strenuamente sia a Morsi che a Sisi, si metta a contestare duramente i diritti sessuali delle sue compagne. Ed è ancora più sconcertante sentirsi dire da un attivista siriano laico, contrario sia ad Assad che all’Is, che adesso non è il momento di parlare dei diritti delle donne in Siria.
Quando sarà, allora, questo momento? Se davvero stiamo lottando per la libertà, adesso è il momento giusto per battersi per la libertà di ogni gruppo e individuo.
Per contrastare l’Is o altri gruppi estremisti e per evitare che sorgano nuovi dittatori, dobbiamo assumerci la responsabilità dei fallimenti collettivi che hanno aperto la strada a tutti questi despoti e fanatici. I nostri sistemi di comunicazione e di istruzione sono tra i principali responsabili del mostro che abbiamo contribuito a creare. Entrambi, infatti, riecheggiano in un inarrestabile circolo vizioso la retorica che ci è stata inculcata a scuola: che siamo vittime di un’enorme cospirazione e dobbiamo solo avere fiducia nei nostri leader. E noi non possiamo fare altro che adeguarci, perché altrimenti cominceranno i veri problemi.
Ecco perché i gruppi della società civile, le organizzazioni internazionali, gli attivisti laici locali e tutti coloro che vogliono spezzare questi vischiosi circuiti che ci controllano devono riunire le proprie forze e cambiare questa retorica di fondo, partendo proprio dalla disastrosa situazione del nostro sistema scolastico e di quello mediatico. Nei nostri curriculum scolastici dobbiamo abbandonare la chimera di una gloriosa Umma che non ha confini e cominciare a insegnare la storia come un processo in cui si vince e si perde. Dobbiamo insegnare ai nostri figli a imparare dai nostri errori e non a padroneggiare l’arte della negazione.
Solo quando i nostri insegnanti e giornalisti cominceranno a comprendere l’importanza dei diritti individuali e ad ammettere che non siamo riusciti ad essere dei bravi cittadini, potremo iniziare a sperare nella libertà, anche se per ottenerla ci vorrà del tempo.
Fino ad allora, gruppi come Hamas, Hezbollah o lo Stato islamico, regimi dittatoriali e politici corrotti continueranno ad avere la meglio. (Now, 22 agosto 2014)
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