Muhammad Al Maghut, ecco il poeta

(di Eva Ziedan all’introduzione; Elena Chiti alla traduzione) Classe 1934, Muhammad Al Maghut è un poeta – anzi, il poeta per eccellenza – di Salamiyyeh, che lui stesso descrive come la città “dei Carmati, di Al Mutanabbi, del fango e dei sogni[1]”. La lascia nel 1955 per il carcere di Mezzeh, a Damasco, quando viene arrestato per la prima volta. E il carcere è il primo posto che Al Maghut visita fuori dalla sua Salamiyyeh.

Nonostante sia stato in prigione, la prima volta, per “soli” nove mesi, tutta la sua vita sarà legata al rumore delle scarpe del poliziotto che lo torturava: “sentivo qualcosa dentro di me che si stava rompendo, non erano le costole, ma qualcosa più profondo!”.

Al Maghut ha scritto in prigione la sua prima poesia, Ghâdat Yâfâ (“Ragazza di Giaffa”), letta durante una serata dai membri della rivista Shi‘r[2]. Ultimata la lettura in presenza di poeti del calibro di Yusuf Al Khal, Unsi Al Hajj ed Al Rahabna, Adonis lasciò loro indovinare chi fosse l’autore di Ghâdat Yâfâ. “Baudelaire? Rimbaud?”, si chiedevano. Adonis rispose indicando Al Maghut: “Ecco il poeta”.

Tra le sue pubblicazioni si annoverano numerose raccolte poetiche – tra cui Tristezza al chiaro di luna (1959), L’uccello gobbo (1960), La gioia non è il mio mestiere (1970), Tradirò la mia patria (1987), Il beduino rosso (2005) – opere teatrali e un romanzo.

La tristezza è un’amica presente in quasi tutti questi testi. Dice Al Maghut: “sono come il prigioniero che è rimasto per vent’anni a scavare un tunnel nella sua cella, per poi scoprire che porta a un’altra cella”.

Questa ironia tragica che caratterizza i suoi lavori non è basata su fonti letterarie. Le sue uniche fonti sono la sua infanzia e il suo ambiente. Dice ancora il poeta: “ero in viaggio con mio padre per la città di Tartus quando, al posto di blocco, la polizia gli chiese la carta d’identità. Mio padre per sbaglio consegnò la bolletta della luce. E così imparai il senso dell’ironia e della semplicità”.

Al Maghut è morto nel 2006, dopo aver liberato la poesia araba dalle costrizioni metriche, nella speranza che questa libertà possa arrivare anche allo spirito della sua gente.

“Hanno preso la mia spada di guerriero, la mia penna di scrittore, il mio pennello di pittore, la mia arpa di zingaro e mi hanno ridato tutto sulla strada per la tomba… cosa posso dire loro, più di quel che dice il violino alla tempesta?”


[1] Le citazioni di Al Maghut riportate nell’articolo sono tratte da un’intervista pubblicata nel libro Ightisâb kâna wa akhuâtihâ  اغتصاب كان وأخواتها(“Lo stupro di Kana e delle sue sorelle”), pubblicato a Damasco nel 2002 dall’editore al Balad, a cura dello scrittore siriano Khalil Sweileh.

[2] Shi‘r, rivista di poesia fondata nel 1957 da Adonis e Yusuf Al Khal, ha contribuito a introdurre  idee moderniste nella poesia araba.

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Presentiamo qui di seguito la traduzione di tre poesie di Muhammad Al Maghut, tratte dalla raccolta Al-farah laysa mihnatî (“La gioia non è il mio mestiere”, 1970):

 

Assedio

 

Ho lacrime blu

a forza di piangere guardando il cielo

Ho lacrime gialle

a forza di piangere sognando spighe

d’oro

 

Vadano pure in guerra i condottieri

nei boschi gli innamorati

ai laboratori gli scienziati

Io

cercherò un rosario e una vecchia sedia

per tornare quello che ero,

un usciere fermo sulla soglia del dolore

almeno finché ogni libro e costituzione e religione

dirà che morirò soltanto

di fame o di prigione.

 

Titolo originale: Al-Hisâr

 

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Quel che inquieta il postino

 

Prigionieri di ogni luogo

inviate tutto

il vostro terrore, le urla e la noia

 

Pescatori di ogni costa

inviate tutte

le vostre reti vuote, i vostri mal di mare

 

Contadini di ogni terra

inviate tutti i vostri

fiori e i brandelli consunti

di seni lacerati

e ventri aperti

e unghie strappate

al mio indirizzo, in qualsiasi bar

in qualsiasi strada del mondo

perché sto preparando un “dossier corposo”

sulle sofferenze umane

da recapitare a Dio

appena sarà sottoscritto

dalle labbra di chi ha fame

dalle ciglia di chi è in attesa

ma sventurati di ogni luogo sappiate

quel che più mi inquieta

è che Dio sia analfabeta.

 

Titolo originale: Khawf sâ‘î al-barîd

 

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Viaggiatore arabo nelle stazioni orbitali

 

A voi esperti e tecnici

chiedo un biglietto di andata per il cielo

il mio triste paese mi manda

a nome di vedove, vecchi e bambini

a chiedervi un biglietto gratis per il cielo

non ho in mano contanti… solo pianti

 

Non c’è posto per me?

Mettetemi nel bagagliaio

o sul tettuccio

sono abituato vengo dalla campagna,

non farò male a una stella

non farò torto a una nuvola

voglio solo arrivare

il prima possibile in cielo

per mettere una frusta in mano a Dio

possa mai incitarci alla rivoluzione.

 

Titolo originale: Musâfir ‘arabî fî mahattât al-fadâ’

 

(Trad. dall’arabo di Elena Chiti)