(di Giustina Bianchi, per SiriaLibano).
2a puntata. Tra i villaggi del Rif Idlib: da Sarmada a Harem andata e ritorno – 24 gennaio 2013
Dopo avere visitato il campo di al Karama, uno dei campi “non ufficiali” per gli sfollati (3.000 persone), i miei amici giornalisti rientrano in Turchia e io resto a Sarmada a casa di un collega siriano. Era la prima volta che entravo in un campo profughi: le tende di plastica erano quasi le une sulle altre. Ogni tenda ospitava anche più di una famiglia. C’era tanto fango per terra a seguito delle piogge. Gli sfollati erano ansiosi di dire la loro ai giornalisti. Si lamentavano del freddo e dell’assenza delle docce. In questo campo aperto da metà dicembre 2012 gli aiuti erano gestiti soprattutto da Ong siriane e turche. Nessun segno delle Nazioni Unite.
Una donna di vicino Hama mi aveva presa da parte e in un misto di vergogna e rabbia mi aveva detto a bassa voce che si stavano riempiendo tutti di pidocchi perché non si potevano lavare. In quel momento ho pensato che, oltre al conflitto e ai suoi vari attori, i media internazionali dovrebbero dare voce alle sue vittime, sfollate, rifugiate, ferite. Purtroppo poco si sa di loro e altrettanto poco si sa delle organizzazioni della società civile siriana. Disgraziatamente, gran parte di queste notizie, restano tra gli “addetti ai lavori”: operatori umanitari, analisti, siti specializzati. L’italiano medio non sa nulla o quasi di quanto capita ai siriani medi!
Ceno con i miei ospiti a Sarmada. Siamo nella parte nord occidentale della regione di Idlib. È ancora relativamente presto ma già il sole è calato. Saranno le 5. Senza elettricità le attività dell’uomo si debbono adeguare al ritmo del sole. Sono le 5 ma sembra che sia mezzanotte: è buio e non c’è quasi nessuno in giro.
L’elettricità arriva per due o tre ore al giorno ad orari diversi, magari nel cuore della notte. Per avere luce la sera, il padrone di casa collega un cavo alla batteria della sua auto: tipica inventiva siriana! Cellulari e laptop sono così attaccati perennemente alle prese quasi a succhiare ogni più piccola particella di energia. Non c’è rete mobile: bisogna avere una SIM turca e andare vicino alla frontiera se si vuole comunicare. La rete fissa ancora tiene ma solo per le comunicazioni locali. Internet (satellitare) c’è a tratti. Anche l’acqua manca: bisogna comprarla. Il regime ha tagliato tutto nelle cosiddette zone “liberate” (ovvero sotto il controllo dell’opposizione).
Dopo cena lascio gli uomini e mi unisco alla moglie del mio collega e a una sua amica che è venuta a trovarla. La prima ha perso un fratello mesi prima: combatteva nell’Esl. È laureata in letteratura francese all’Università di Idlib e insegnava francese in una scuola di Sarmada. Ora qui le scuole non funzionano più: servono per ospitare gli sfollati delle zone martoriate di Hama e di altri villaggi del Rif Idlib. Per fortuna lei può ancora continuare a insegnare nel vicino villaggio di Kafr Dryan dove sei scuole ancora funzionano. Ha uno stipendio e anche ancora un lavoro.
La sua amica, casalinga, è molto triste invece. “La noia ci sta uccidendo”, dice. “Non ci sono più attività; non c’è più nulla da fare. Neanche guardare la tv. È buio e abbiamo paura di uscire. Vorrei solo morire”. I suoi occhi si riempiono di lacrime che inghiotte subito perché ci sono i loro bimbi. Loro continuano a giocare, ma ora i Lego li usano per fare mitragliatori o carri armati. Quando la tv funziona, oltre ai cartoni animati ci sono le immancabili immagini violente della guerra.
Mi trovo comunque in una famiglia fortunata: hanno una bella casa, uno stipendio, l’acqua, il mazut per il riscaldamento, cibo e vestiti invernali. C’è anche il latte per i bambini che costa 50 lire al litro (1$=97 lire) ed è ormai considerato un lusso. Mi addormento vicino alla stufa ripensando a quanto si devono deprimere gli sfollati che, oltre a passare ore ed ore al buio, hanno perso tutto.
La moglie del mio collega mi sveglia alla mattina chiedendomi se avessi sentito il rumore dell’artiglieria: “Io non ho mai dormito – dice – l’Esl sta cercando di prendere la prigione di Idlib”. Sarmada è una cittadina abbastanza popolosa in cui già prima della rivoluzione c’era il ramo di una grossa organizzazione caritatevole basata a Homs. Il suo rappresentante è qui e ci posso parlare facilmente quando voglio. Decido quindi di concentrarmi sui villaggi circostanti.
Guardo la cartina della Siria col mio collega e decidiamo i villaggi da visitare. Alcuni si escludono da soli. A Taftanaz, per esempio, non vale la pena andare: “Non troverai nessuno con cui parlare: non vi è rimasto quasi più niente”. Taftanaz, sede di un aeroporto militare era stata presa da poco dall’Esl. La città era stata praticamente distrutta e quasi tutti gli abitanti erano sfollati altrove, nei campi o a Sarmada stessa.
Invece a Maarrat Misrin, a 8 km da Idlib, “È pericoloso andare: ogni tanto bombardano”. Si devono anche considerare le distanze, dato che è bene rientrare prima che sia totalmente buio. Insomma il campo d’azione è ristretto e non si può avvisare nessuno: non si può telefonare! Non si possono mandare email! Bisogna andare e basta, sperando che almeno un conoscente dei possibili interlocutori sia reperibile per portarmi da loro.
La prima destinazione è il villaggio di Harem, a 27 km da Sarmada e a pochi kilometri dalla Turchia: infatti la rete telefonica turca qui funziona. La strada per raggiungerlo è in collina, nel verde. Gli alberi che costeggiano la strada sembrano dei poveri corpi mutilati. Venditori di legna o abitanti dei villaggi vicini vengono a tagliarli per procurarsi il combustibile per scaldarsi. Si addentrano anche nelle foreste.
Un chilo di legna costa 15 lire contro le quasi 100 di un litro di mazut. La catastrofe in Siria, oltre che umana, è anche ambientale. Il panorama di Harem è quello di una città fantasma fatto di case bruciate, strade malconce, edifici e moschee bombardati. Harem era pieno di lealisti e l’Esl l’ha preso con la forza i primi di gennaio 2013. Un membro del neo eletto Consiglio locale (majlis mahalli) ci mostra la sua casa totalmente bruciata dagli shabbiha che prima di andarsene hanno distrutto e devastato quanto possibile. Almeno a lui e alla famiglia è rimasta la vita. Hanno tagliato anche i tubi che irrigavano i campi: ora solo la pioggia potrà nutrirli. Qui comunque da sei mesi non c’era più né acqua né elettricità.
Una scuola da poco costruita è ora inagibile: sui muri, scritte inneggianti al Presidente Dottore Bashar al Asad (“Con le nostre anime ci sacrifichiamo a te”). Un’altra scritta dice “Chi non difende la patria non merita di viverci”. Chi non difende la patria sarebbe la popolazione civile? I bambini e gli insegnanti della scuola? E chi sarebbero i difensori della patria? Le milizie di Asad?
La priorità di Harem è l’assistenza sanitaria: ci sono 35.000 abitanti nella zona più 100 famiglie di sfollati. I medici e gli infermieri che lavoravano nelle strutture statali se ne sono andati. Sono rimasti quattro medici e quattro infermieri di cui una donna: si sono costituiti in gruppo e assieme stanno tentando di continuare ad assicurare l’assistenza sanitaria che lo stato non dà più. Le medicine sono poche e l’ospedale più vicino è a 15 km (Ras al Hosn) ma manca un’ambulanza per raggiungerlo. Quando hanno bisogno di medicine, le ricevono da qualche Ong siriana basata in Turchia, ma il problema principale è la mancanza di sufficiente personale medico e infermieristico. I pazienti del dispensario sono in larga parte di Harem e sono soprattutto bambini con problemi intestinali (dovuti alla cattiva qualità dell’acqua che si acquista) e respiratori.
Lascio Harem e ritorno verso Sarmada. A un certo punto vedo il cartello con l’indicazione Qalb Loze. Si tratta di una zona di resti di cattedrali bizantine, nonché un’enclave drusa. L’avevo visitata quando vivevo ad Aleppo. I miei accompagnatori mi dicono che i resti sono ancora lì (come anche la colonna di Sarmada!) e che i drusi sono rimasti neutrali.
Decidiamo di fermarci nel villaggio di Kafr Dryan a 4 km da Sarmada. Ci sono 13.000 abitanti più 3.000 sfollati da Aleppo, Taftanaz, altre parti del Rif Idlib e Rif Hama. Dalle case e dalla vastità degli oliveti si vede subito che siamo in pieno contesto rurale. Non vedo particolari segni di distruzione qui ma ormai il sole sta calando… Mi dicono poi che il villaggio è stato “liberato” nell’agosto 2012.
Decidiamo di dirigerci verso il Consiglio locale che troviamo molto facilmente dopo aver chiesto indicazioni per strada. Sulla porta a vetri c’è un grosso adesivo dei Fratelli Musulmani. È il Consiglio locale, con i suoi 45 membri, che cerca di assicurare servizi di base alla cittadinanza. Questi consigli sono entità politico-amministrative formatesi in molte delle zone sotto controllo dell’opposizione. In genere si dividono tutti allo stesso modo in uffici specifici: umanitario, stampa, medico, legale, educativo, dei servizi (es. raccolta rifiuti urbani, riparazione reti telefoniche/elettriche), di polizia.
Riempiono il vuoto lasciato dai servizi statali e in particolare qui assicurano la distribuzione del pane e la manutenzione delle linee telefoniche locali. I membri dell’ufficio umanitario si recano anche periodicamente in Turchia ad acquistare cibo o altri beni da distribuire alla popolazione. Un sacchetto di pane da otto pezzi lo vendono a 50 lire siriane (contro le 15 del novembre 2011). Con i soldi della vendita riescono poi ad acquistare la farina per fare il nuovo pane. L’approvvigionamento di farina statale nelle zone “liberate”, è stato tagliato. L’ultima volta hanno avuto la farina dall’organizzazione di Ghassan Abbud (il proprietario di Orient TV). Lamentano la mancanza di un forno nella zona che va da Harem a Kafr Dryan: ci sono dei piccoli forni privati o il forno di Sarmada.
I membri del Consiglio sono tutti di qui e hanno meno di 35 anni. Sono tutti volontari. Hanno studiato a Idlib o ad Aleppo: ci sono insegnati, medici, ingegneri, avvocati. Tutti uomini. Sono quelli che chiameremmo “gli intellettuali” del posto. Quello che si qualifica come insegnante dice che però non ha mai potuto svolgere questa professione, dato che la famiglia era conosciuta come simpatizzante dei Fratelli Musulmani e che al padre questo era costato anni di galera. Anche qui purtroppo la solita storia: non c’è acqua, né elettricità né rete telefonica (a parte quella locale), né Internet.
Una famiglia deve spendere 3.000 lire al mese per l’acquisto dell’acqua: una follia per chi non ha più una fonte di reddito. Qui come altrove dove lo stato ha chiuso i rubinetti, l’acqua è estratta da proprietari di pozzi muniti di potenti generatori che poi la vendono. La maggioranza degli abitanti di Kafr Dryan lavora soprattutto nei campi; i restanti sono (o erano) impiegati pubblici.
Quelli “civili” come gli insegnati, prendono ancora lo stipendio: i “militari”, come gli agenti di polizia che hanno disertato, no. Tuttavia, anche gli impiegati della compagnia elettrica statale, benché civili, hanno perso lo stipendio. Kafr Dryan non sembra essere particolarmente strategico perché, ci dicono, a differenza di Harem, non è mai stato bombardato.
È comunque un esempio della “profonda provincia” siriana, fatta di villaggi poco conosciuti anche dai siriani di città ma che nella rivolta contro il regime hanno visto emergere una società civile fatta dai loro giovani che hanno avuto accesso all’università e che “vogliono aiuti che possano dare risultati durevoli e non mero assistenzialismo”.
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