(di Giustina Bianchi, per SiriaLibano).
3a puntata. Dal Rif Idlib al Rif Halab: Daret ‘Izza e al Atareb – 25 e 26 gennaio 2013
Qarqaniya e Kafr ‘Uruq sono due piccoli villaggi del Rif Idlib poco distanti da Sarmada. Entrambi sono accomunati da una certa stabilità che attira gli sfollati, da poche scuole che ancora funzionano, da uliveti e da poliziotti disoccupati.
Nel primo, sui 10.000 abitanti – e 5.000 sfollati – i poliziotti che hanno disertato e sono senza stipendio sono 45. Nel secondo sono ben 150 su 5.000 abitanti! A Qarqaniya gli agenti si sono però organizzati e anche senza stipendio hanno continuato a svolgere il loro lavoro come Ufficio di Sicurezza all’interno del Consiglio locale, creato un mese fa (la cittadina è stata “liberata” a fine ottobre 2012). Si sono, infatti, ripresi la stazione di polizia che era stata occupata dall’Esercito libero (Esl): i poliziotti non vogliono che i militari stiano dentro il paese e sembrano averla avuta vinta.
In entrambi i villaggi, il problema principale è il pane, che scarseggia perché la farina non arriva e perché il forno pubblico non funziona più. A Qarqaniya si producevano 2.000 sacchetti di pane al giorno: ora servirebbe il carburante per rimettere il forno in marcia. In questo momento, il Consiglio locale compra la farina in Turchia e la distribuisce ai più bisognosi.
Dà loro una mano anche l’associazione Ihsan, fondata da una settimana da un gruppo di giovani volontari del paese che mai avevano lavorato nel settore associativo. Tra tutti cercano di distribuire 300 sacchi di farina al mese. La panificazione è poi “autogestita” dagli abitanti che utilizzano i forni privati tradizionali “tannur”, a forma di campana rovesciata. Lasciando Qarqaniya voglio comprare anch’io un po’ di questo pane, ma le donne che lo stanno facendo non vogliono… me lo regalano!
A Kafr ‘Uruq i membri dell’ufficio umanitario del Consiglio locale si occupano anche della panificazione e della distribuzione del pane che cercano di vendere a un prezzo (40 lire per un sacchetto di 8 pezzi) inferiore a quello a cui i cittadini dovrebbero acquistarlo, cioè 75-100 lire. Ricevono la farina anche da organizzazioni siriane più grosse come quella di Ghassan Abbud.
Riescono a distribuire il pane a 85 famiglie: qui le famiglie hanno almeno cinque figli ciascuna! Col ricavato della vendita comprano dell’altra farina e pagano il carburante per le auto che distribuiscono il pane. “Ci sarebbe utile un furgoncino”, mi dice il capo dell’ufficio umanitario. Anche in questi villaggi l’acqua si deve comprare perché non c’è: qui ad esempio un pozzo ci sarebbe, ma mancano sia il generatore per pompare l’acqua sia il mazut per alimentarlo.
Il giorno seguente, dato che la situazione lo permette, andiamo da Sarmada verso al Atareb, pressoché equidistante da Aleppo e dal confine siro-turco (rispettivamente 25 km ad ovest di Aleppo e 20 km dalla frontiera). Intanto, mi rendo conto che sia i Consigli locali, sia le neonate organizzazioni della società civile hanno come priorità, oltre alla distribuzione degli aiuti umanitari (cibo vestiti, kit igienici, ecc.) che riescono ad ottenere, anche quella di rimpiazzare i servizi che lo stato ha cessato di garantire alla popolazione: dalla raccolta dei rifiuti, al mantenimento dell’ordine pubblico, alla riparazione delle reti telefoniche. Tutto questo lavoro lo svolgono totalmente da volontari, e sono pochi quelli che ancora godono di uno stipendio da altri lavori.
Dunque alle mie domande, sulla loro organizzazione interna, sulla presenza di donne tra i volontari, sulla capacità di raccolta fondi, sulla trasparenza, ecc., ne aggiungo altre più adatte alla situazione: “Quante volte al giorno mangiate?”, “C’è elettricità?”, “Qual è il maggior bisogno della popolazione?”, “Ci sono strutture sanitarie funzionanti?”, “C’è personale sanitario?”. Eccetera.
Al Atareb è piena di macerie ed edifici sventrati: è quasi una città fantasma. Non c’è quasi nessuno in giro.
Lungo la strada, i miei colleghi mi avevano indicato una collina bassa: era la “Base 46”. Mi hanno detto che era una grossa base dell’esercito regolare da cui partivano gli attacchi verso al Atareb e le cittadine intorno a Idlib. L’Esl l’aveva presa verso la fine di novembre. Hanno poi continuato a parlarne lungamente tra loro citando dettagli, date, nomi di combattenti e di battaglioni. Tante erano le informazioni sulla presa della base che mi sono sentita stordita e mi sembrava di avere perso dei pezzi di un puzzle. (Ho poi scoperto che la Base 46 era uno snodo strategico per i rifornimenti dell’esercito siriano da Idlib ed Aleppo. Considerata essenziale per il controllo del nord della Sira e per la battaglia di Aleppo, era stata presa dall’Esl dopo quasi 2 mesi di assedio.)
Anche senza avere molta esperienza di contesti bellici, non mi è stato difficile, collegare la Base 46 alla distruzione di al Atareb, che ricorda più un pianeta disabitato che la Terra. Gli abitanti sono 3.500, contro la cifra di 10.000 riportata nel 2004 dall’Ufficio centrale di statistica. Esco per fare qualche foto. I miei colleghi mi dicono che è meglio farle dall’auto: la gente del posto potrebbe scambiarmi per una giornalista di qualche canale governativo.
Arriviamo infine a casa di uno dei membri del Consiglio locale, un avvocato di mezza età. Ha fatto parte della delegazione dei cinque Consigli locali che si sono recati a Parigi nel novembre 2012 (al Atareb, Jabal al Zawiya, Maarrat al Nu‘man, Hama, Tall Rifaat) quando la Francia, primo fra i Paesi occidentali, aveva riconosciuto l’opposizione siriana. Mi mostra fiero il passaporto con il timbro d’ingresso.
Con una donazione del governo francese, il Consiglio locale di al Atareb ha potuto ripulire le strade dalle macerie delle esplosioni e dai rifiuti, riparare le pompe per l’acqua e ricostruire il forno che però ancora non è funzionante perché mancano farina e mazut. Inoltre hanno iniziato a costruire una cisterna sotterranea di 1.000 metri cubi che servirebbe a immagazzinare l’acqua del pozzo e a inviarla nelle abitazioni. Progetto ambizioso ma che secondo loro porterebbe a una più efficiente distribuzione dell’acqua.
È quasi ora di pranzo e arrivano due ragazzi di una neonata associazione locale: hanno finito l’università da poco. La loro organizzazione è costituita come un Consiglio locale, suddivisa in vari uffici con competenze diverse. Sono una cinquantina di giovani del posto attivi da maggio 2012: anche loro hanno contribuito a ripulire al Atareb dalle macerie. Da fine ottobre hanno costituito un ufficio umanitario ma servirebbe una connessione Internet per migliorare la comunicazione e il coordinamento con organizzazioni siriane e straniere.
Mi rendo conto di quanto sia importante fornire aiuti di prima necessità alla popolazione (cibo, medicine, “Non Food Items”), ma di quanto sia essenziale, allo stesso tempo, conoscere e mappare le organizzazioni civili esistenti e i loro bisogni. Questo migliorerebbe il coordinamento tra le varie organizzazioni sul territorio e le aiuterebbe a migliorare i loro servizi per la popolazione.
A Daret ‘Izza cittadina vicina alla ben più nota basilica di San Simeone lo Stilita, troviamo una situazione simile a quella di al Atareb. La cittadina è desolata ma i danni sembrano inferiori a quelli di al Atareb.
A.B. fa parte del Consiglio locale: lavora nell’Ufficio di statistica ed è allo stesso tempo il presidente dell’associazione “Munazzama shabab al furqan”, composta da 60 giovani. Ha 30 anni. È laureato in economia ad Aleppo ed aveva un negozio di computer. A Daret ‘Izza ci sono 48.000 abitanti, più 400-500 famiglie di sfollati da Hama, Aleppo e Homs, mi dice.
Ci accolgono che sono alla fine di una riunione. Anche a Daret ‘Izza la popolazione è senz’acqua da 4 mesi e quindi, invece di continuare a comprare l’acqua – secondo l’associazione – è meglio scavare dei pozzi. Questo è uno dei loro progetti più urgenti, come anche la riparazione delle linee telefoniche e di 90 case e scuole nella zona. Molti sfollati, infatti, sono in larga parte ospitati dalla popolazione locale visto che sono rare le case sfitte. Quanto alle scuole, una volta riparate, le lezioni potrebbero riprendere restituendo a bambini e insegnanti la loro quotidianità. I docenti, infatti, pur avendo ancora uno stipendio, non possono più svolgere il loro lavoro!
Per questi progetti e per altri, servono fondi, che tutti questi volontari non hanno e che cercano attraverso visite frequenti in Turchia presso istituzioni turche e organizzazioni siriane, turche e straniere.
Tuttavia non è solo un problema di fondi, ma anche di professionalità mancanti. Nel centro medico di Daret ‘Izza, mi dice un medico dell’associazione, sono garantiti i servizi di medicina interna e di pediatria anche grazie all’aiuto di quattro medici egiziani. Mancano però ginecologi e ostetriche: i più vicini si trovano all’ospedale di al Dana a 15 km di distanza. Così, nella Siria “liberata”, per la paura di intraprendere un viaggio che potrebbe essere rischioso, si fanno anche meno bambini.
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