Nella Siria “liberata”, Taccuino dal nord

(di Giustina Bianchi, per SiriaLibano). Questa è la prima parte del mio viaggio di ritorno in Siria dopo sei anni. È metà gennaio di quest’anno quando vi rimetto piede per la prima volta da quando vivevo con i miei due gatti in un sottotetto del patriarcato greco-cattolico nel centro di Aleppo (piazza Farhat, Jdeide). All’epoca studiavo e insegnavo francese e un po’ d’italiano rispettivamente a bambini e a giovani siriani che studiavano per diventare guide turistiche.

Dopo un po’ di esitazione e seppur a distanza di tempo, ho pensato che fosse mio dovere dare anche questa mia piccola testimonianza su quanto sta avvenendo in Siria, dove la brutalità sembra essere divenuta la norma e dove la repressione quotidiana di civili sembra non scandalizzare nessuno. Ho quindi deciso di trascrivere gli appunti del mio taccuino, i ricordi del mio viaggio nel nord di questo Paese dimenticato per provare a dare voce ad un popolo che continua a lottare per la libertà e la propria dignità. La mia vuole essere quindi un fermo immagine di ciò che ho visto e vissuto senza ulteriori rielaborazioni.

1a puntata: da Reyhanli al Rif Idlib – 23 gennaio 2013

Parto da Reyhanli (Rihanie in arabo), cittadina turca nella provincia di Hatay a ridosso del confine siriano. Qui gran parte della popolazione è di origine araba: fino al 1939 Hatay era parte della Siria. È facile poter comunicare in arabo per strada e nei negozi. Camminando, mi colpiscono soprattutto i ristoranti e i negozi con scritte in arabo, che ricordano che “Si vendono dolci di Idlib”, che “C’è un sarto specialmente per i siriani” e che “C’è un barbiere siriano”.

Queste immagini mi rimandano immediatamente alle scene viste a Damasco nei quartieri di Jaramana o Sitt Zeinab, quando i rifugiati Iracheni che vi affluivano cercavano di ricreare in Siria un loro pezzo di Iraq. A Reyhanli infatti, sono affluite famiglie di siriani, soprattutto dalla zona di Idlib, ma anche da Hama e da Aleppo. Preferiscono venire qui, dove la maggioranza della popolazione è sunnita, piuttosto che recarsi ad Antakya, dove ci sono molti Alawiti filo-Bashar.

Chi ha qualche soldo messo da parte e che può prendere in affitto un appartamento viene qui: molto meglio che finire nei campi in Siria a ridosso del confine turco, dove le tende sono attaccate le une alle altre e non ci sono né docce né riscaldamento. Chi può, apre attività commerciali, piccoli ristoranti in particolare, come hanno fatto due giovani disertori, un aleppino e un damasceno, o come ha fatto anche il responsabile di Halab TV col suo “Liberation Restaurant”. Una famiglia vende manaqish per strada: madre, padre e figli lavorano alla “catena di produzione”. Il risultato è ottimo!

Ci sono anche uffici di cambio gestiti da siriani, organizzazioni umanitarie siriane nate da poco, nonché una scuola “della Siria libera” per i bambini siriani che vivono a Reyhanli. C’è inoltre l’Assistance Coordination Unit della Coalizione nazionale siriana (Cns), un ufficio che si occupa del coordinamento degli aiuti umanitari da fare giungere in Siria e che funge anche da ufficio di rappresentanza del Cns.

È inoltre assai comune vedere per strada o nei ristoranti giovani più e meno barbuti, con stampelle, braccia ingessate o altri generi di fasciature, presumibilmente combattenti dell’Esercito siriano libero (Esl) mandati a curarsi oltre confine. L’ospedale “Orient” di Ghassan Abbud, businessman siriano e proprietario dell’omonima emittente anti Asad (Orient TV) è alquanto popolare. In generale i combattenti dell’Esl sono trasportati qui a Reyhanli quando sono feriti, piuttosto che nella vicina Antakya filo-regime. Si è diffusa la voce tra i siriani che i medici Alawiti invece di curare i feriti ne peggiorino le loro condizioni fino anche alla morte, ma non ci sono prove di questo, né ho potuto verificarlo in qualche modo.

Il confine con la Siria da qui è veramente vicino e alquanto poroso: in 10 minuti di auto lo si raggiunge e lo si attraversa… Da questo confine entrano gli aiuti umanitari diretti al nord della Siria. Nella no man’s land tra il confine turco e quello siriano c’è un limbo di varia umanità fatta di famiglie che attendono di entrare in Turchia tassisti e guidatori di service (pulmini comunemente usati per il trasporto urbano e periurbano in Siria), operatori umanitari, contrabbandieri e gente che cerca di trovare di che vivere, magari fungendo da passeur.

Il valico di frontiera siriano di Bab al Hawa è in mano all’Esl. Si entra ufficialmente nella zona sotto il controllo dell’opposizione. La brigata al Faruq, islamista “moderata” (bandiere nere con la shahada, la professione di fede dei musulmani, e fasce nere sulla fronte dei combattenti barbuti) ma non nel novero dei gruppi vicini alla Jabhat an Nusra, controlla il posto di frontiera: lo si capisce dal suo nome scritto sulla struttura e sui muri di quello che era un edificio di al Asad.

Gli uffici, le stanze dove sedevano i grigi e un tempo ligi ufficiali di frontiera della Suriya al Asad (tipico cartello che accoglieva i visitatori all’entrata della Siria e che dava il benvenuto nella “Siria degli Asad”) sono ora imbrattati di scritte e di sporcizia, sfregiati e danneggiati… In mezz’ora o poco più arrivo in auto a Sarmada, cittadina nella regione di Idlib, piuttosto famosa per il contrabbando di merci con la Turchia da ben prima della rivoluzione. La strada per raggiungerla è piuttosto desolante: a parte i distributori di carburante incendiati, ciò che più mi colpisce sono gli alberi che costeggiano la strada, in larga parte tagliati o amputati dei rami più facilmente raggiungibili.

Il mio compito è di fare una rapida inchiesta sulla società civile locale, cioè sui gruppi più o meno organizzati che stanno provvedendo ai bisogni umanitari e non della popolazione, incluso quello di dare loro voce attraverso filmati, blog, notiziari, ecc. Infatti, i donatori internazionali, l’Unione europea in primis, tengono molto ad avere una mappatura delle organizzazioni civili attive in Siria come attori da sostenere per promuovere una transizione democratica nel Paese.

Prima di iniziare il mio lavoro, visto che sono con dei giornalisti, approfitto comunque dell’opportunità di conoscere un battaglione (katiba) dell’Esl. Di questo so che è costituito in vari battaglioni (kata’ib) e il suo comando generale è in Turchia. Dopo l’approccio con uno di questi, capiamo che non tutti vogliono parlare con i giornalisti. Ci dicono infatti che dopo il rilascio di interviste, soprattutto televisive, alcune basi sono state bersaglio di attacchi da parte dell’aviazione di Asad. Ad ogni modo un gruppo accetta di parlare con i reporters e ci avviamo tutti verso il loro campo, in collina. Prendiamo una stradina secondaria. La strada principale che porterebbe alla città di Idlib, ancora sotto controllo del regime, è bloccata, o meglio non è percorribile: un cartello ammonisce che c’è un check point degli shabbiha dopo 500 metri.

Sulla via per la base dell’Esl mi siedo sul posto accanto a quello del guidatore, un ragazzo che avrà avuto tra i 20 e i 25 anni. Viene dai villaggi della zona: altri del gruppo sono di Idlib o di villaggi del Rif Halab (la provincia di Aleppo). Gli chiedo che cosa facesse prima della rivoluzione: “Il cameriere in un ristorante ad Aleppo”, mi risponde. Il ristorante in questione era nella città vecchia non troppo lontano dalla Grande Moschea. Lo visualizzo nella mente e vedo questo ragazzo dall’aria serena e sorridente che porta piatti prelibati…

A parte qualche quarantenne, i membri del battaglione avranno al massimo 25 anni anche se sembrano tutti più grandi: uno di loro ha la parte inferiore di una gamba amputata e si regge grazie a due stampelle. Fieri, ci mostrano un mitragliatore caricato su un pick-up in grado di colpire aerei ed elicotteri nemici: lo hanno preso dopo una battaglia contro l’esercito regolare. Il ragazzo che lo sta maneggiando ci mostra le munizioni: riuscirà a reinserirle nell’arma solo dopo vari tentativi. Un po’ mi fa tenerezza: molti di questi ragazzi sono civili che hanno raggiunto la resistenza. Sono coraggiosi ed entusiasti anche se mancano di addestramento, armi e persino vestiti invernali. Scendiamo dalla collina da cui si vedono vari centri abitati e la città di Idlib.

Il vento soffia. Fa freddo. I combattenti spengono il piccolo falò che avevano acceso per scaldarsi. Li guardo uno ad uno e vedo solo persone comuni che avevano un lavoro normale e che si sono organizzati con le armi a difesa della loro gente.

Entriamo in una casa dove ci sediamo per terra e qualcuno prepara il tè: la stufa è di quelle tipiche a mazut (diesel) ma alimentata a rami di olivo. Il mazut costa troppo. Sono l’unica donna ma ciò non causa disagio a nessuno, tanto meno a me.

Raccontano che il loro battaglione ha 70 unità. Il capo, che ci parla, ha poco più di quarant’anni. Aveva una piccola impresa ad Idlib ma si è unito alla rivoluzione e ora ha venduto tutto. Con i proventi della vendita ha comprato le prime armi. Nell’aprile 2011, ci racconta, 80 case del villaggio dove ci troviamo (18.000 abitanti), sono state bruciate dall’esercito regolare: due persone sono morte arse vive. L’esercito cercava armi e invece ha trovato solo civili che protestavano. Fino a quel momento il battaglione aveva perso 51 uomini.

Il comandante tiene a precisare che loro parlano con i giornalisti per fare sentire la voce del popolo siriano. Aggiunge che per la Siria, la comunità internazionale non sta facendo nulla: “La Francia è entrata in Mali senza chiedere niente all’Onu e invece qui (in Siria, n.d.r.) l’Europa e gli Usa sono contro il popolo siriano”. Un altro membro anziano aggiunge (e quante volte ancora lo sentirò…): “Noi non siamo affamanti: vogliamo libertà e dignità”. Quando chiediamo loro di an Nusra, ci dicono che è una delle tante brigate dell’Esl.

Finiamo il tè. Gli uomini fanno il takbir (gridano “Allahu Akbar”). Il sole sta per scendere. Ci salutiamo e lasciamo il villaggio ai piedi della loro collina.

(2a puntata)