“La nostra ricompensa per essere rimasti ad Aleppo a dare una mano nella lotta contro Asad e lo Stato islamico? Essere trattati come pericolosi estremisti dall’Occidente”.
(di Zaina Erhaim, per The Guardian. Traduzione dall’inglese di Claudia Avolio). All’inizio non avevamo riconosciuto il nostro amico. Aveva perso più di 10 chili e aveva difficoltà a stare in piedi. Il suo volto era del colore di un limone maturo, i suoi vestiti sporchi come se fosse appena uscito da una tomba. Poteva davvero essere Mohammad, quello?
Una settimana prima il farmacista trentenne era stato rapito in un sobborgo di Aleppo da parte di Daesh. La maggior parte dei suoi amici aveva creduto che Mohammad (questo non è il suo vero nome) se ne fosse andato per sempre. “Nessuno entra nelle prigioni di Daesh per uscirne vivo, soprattutto quelli che sono accusati di essere laici”, dice il suo amico Rand. Mohammad è un musulmano devoto, ma per Daesh un laico è semplicemente chiunque osi affrontarlo.
L’ironia della sorte è che, mentre Mohammad è un pericoloso laico agli occhi di Daesh, l’Occidente lo vede come un pericoloso islamista. Dopo che Daesh ha occupato alcuni sobborghi di Aleppo, Mohammad e molti altri medici hanno deciso di non lasciare la propria città ma di continuare ad aiutare la gente del luogo – malgrado il rischio e il sacrificio personale in ballo. Eppure, ora si ritrovano trattati come terroristi ovunque vadano, solo perché provengono da territori occupati da Daesh. Il mese scorso a Mohammad e a un gruppo di medici non è stato consentito di entrare in Turchia, anche se i loro passaporti sono validi. Una guardia di frontiera ha detto loro: “Tornatevene al vostro Stato islamico”.
In un certo senso, Mohammad è fortunato. Non solo è riuscito a scappare da una prigione di Daesh, ma non deve neppure viaggiare all’estero, dove il mondo intero lo tratterebbe da terrorista finché non provasse la sua innocenza. “Siete tutti terroristi per gli americani”, mi ha detto ieri la direttrice di una banca nella città turca di Gaziantep, spiegandomi il nuovo divieto di trasferimenti di dollari americani su conti di siriani.
Almeno si è degnata di spiegare. La scorsa estate ho ricevuto una telefonata dal consolato americano di Istanbul in cui mi si diceva che il mio visto di due anni era stato annullato. Pare non fossero autorizzati a fornirmene i motivi. Ho viaggiato negli Stati Uniti due volte lo scorso anno, con una organizzazione che è registrata lì, e ho una tessera di giornalista internazionale, un visto valido per il Regno Unito e un curriculum di lavoro per la BBC: tutto ciò non mi ha fatto scampare al sospetto di essere una potenziale terrorista. Un amico che lavora negli Stati Uniti mi ha detto che forse non avrei affrontato questi problemi vivendo in Turchia. “Ma tu vivi all’interno della Siria, perciò sei più probabilmente una criminale, in un modo o nell’altro”.
Quando il mio volo è atterrato all’aeroporto londinese di Heathrow lo scorso dicembre, la polizia è salita sull’aereo e ha chiamato una donna con un nome che sembrava arabo. Sono andata nel panico e ho iniziato a cancellare le fotografie nel mio telefono in cui sono senza velo. Mi ci sono voluti alcuni secondi per ricordarmi che non mi trovavo a un checkpoint dello Stato islamico in Siria. Così ho chiuso la galleria fotografica e ho proseguito cancellando alcuni inni patriottici dall’apparecchio, nel caso in cui i loro messaggi islamici potessero essere presi come prova che ero una terrorista. Poi un altro controllo della realtà: il nome chiamato non era il mio. Più tardi, in aeroporto, ho pianto tantissimo.
Be’, forse hanno ragione, forse sono una terrorista? Una terrorista che ha deciso di lasciare il suo lavoro di giornalista in un organo di stampa altamente rispettato per tornare a casa e aiutare la gente sotto l’attacco dei barili-bomba di Asad. Sono una terrorista che è attaccata alla vita eppure sceglie di affrontare la morte ogni giorno, nel nome della libertà e dei diritti umani.
Ho sette amici nelle prigioni dello Stato islamico, rapiti molto prima che il resto del mondo si accorgesse di questo gruppo terroristico. Ne ho persi altri che stavano lottando contro Daesh nel gennaio 2014, cercando di cacciare i militanti fuori dalle province di Idlib e Aleppo. Abu Younis, il caro dottore del centro medico di Bustan al Qasr, è stato giustiziato insieme ad altri 40 nella clinica oculistica di Aleppo dopo che il luogo è stato preso come base da parte di Daesh nel 2013. E poi ci sono tutti gli amici splendidi che sono morti sotto tortura nelle prigioni di Asad, o mentre resistevano alla sua tirannia.
E ora, con la nostra città divisa da fazioni che si combattono, anche i cieli sulle nostre teste sono pieni di terrore. Un mio parente di 11 anni è stato di recente ucciso da un attacco aereo della Coalizione a Ein Shib, un sobborgo della città di Idlib. Ahmad aveva perso suo padre lo scorso anno, così lui e sua sorella vivevano col nonno, che è un membro d’alto rango del Fronte Nusra. Da quando sono iniziati gli attacchi della Coalizione, 35 combattenti di Aleppo e due grandi battaglioni di Idlib si sono uniti allo Stato islamico.
Tra tutte le dispute geopolitiche e la paura di jihadisti di ritorno che seminano terrore in Europa, sono le storie dei siriani comuni che si stanno dimenticando: gente che è stata terrorizzata prima da un dittatore che voleva morti tutti quelli che non lo sostenevano, poi da jihadisti stranieri provenienti da tutto il mondo a occupare il nostro Paese. E ora dai “danni collaterali” degli attacchi aerei della Coalizione. E voi ci chiamate terroristi? (The Guardian, 17 febbraio 2015)
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