(di Lorenzo Trombetta) La Siria brucia ma il segretario generale dell’Onu Ban Ki Moon e il segretario generale della Lega Araba Nabil el-Arabi hanno un’idea per provare a risolvere il drammatico impasse in cui si trovano i siriani e il regime di Damasco: inviare una seconda missione di osservatori arabi, coadiuvati da un non meglio precisato personale delle Nazioni Unite ma guidati da un rappresentante unico Lega Araba-Onu. Un’ipotesi che risulta quanto mai fuori dalla realtà. Essenzialmente per due ragioni.
1) Rispetto alla fine di gennaio, quando la prima missione di osservatori è stata sospesa e di fatto ha cessato di operare sul territorio, la repressione militare nel paese ha subìto una recrudescenza esponenziale, in particolare nella regione centrale di Homs e in alcune zone vicine a Damasco.
2) La prima, e finora unica, missione della Lega Araba in Siria ha mostrato seri e preoccupanti limiti nello svolgere il proprio compito. Una debolezza che ha facilitato chi, da entrambe le parti, ha tentato di legittimare la propria posizione e screditare quella rivale, usando proprio l’appannato prisma degli osservatori arabi.
A tal proposito, proponiamo qui alcune riflessioni a margine del rapporto che il generale sudanese Muhammad al Dabi, capo della missione dimessosi lo scorso 12 febbraio, ha presentato alla fine di gennaio scorso alla Lega Araba (scaricabile qui in versione PDF, compresi gli allegati). Dabi, con una lunga esperienza in zone di guerra, in passato aveva ricoperto l’incarico di responsabile dell’intelligence di Khartum ed è da più parti indicato come un uomo vicino al presidente Omar al Bashir.
La missione è stata formata in tutto da 166 osservatori di 13 Stati diversi. Ufficialmente è stata attiva dal 29 dicembre al 28 gennaio, ma di fatto è stata operativa fino al 15 gennaio. Una prima squadra era arrivata a Damasco il 22 dicembre, alla vigilia del primo attentato suicida attribuito dal regime ad al Qaida.
Il generale Dabi era arrivato in città il 24 dicembre; tre giorni dopo, il 27, lui e dieci altri osservatori avevano condotto il primo sopralluogo a Homs, già allora teatro della repressione più violenta. L’8 gennaio Dabi si è recato al Cairo per presentare il rapporto preliminare della missione.
L’Islam fattore di legittimazione. Il generale sudanese sceglie di aprire il suo rapporto definitivo con una citazione coranica: “In verità proponemmo ai cieli, alla terra e alle montagne la responsabilità della fede ma rifiutarono e ne ebbero paura, mentre l’uomo se ne fece carico e lo accettò. In verità egli è oppressore e ignorante.”, surat ahzab, 33:72), ribadendo così il carattere islamico di una missione che, in teoria, è espressione di un’entità politica araba non necessariamente musulmana. In un’intervista al quotidiano panarabo al Hayat, Dabi aveva in precedenza certificato la propria onestà e trasparenza affermando: “Ho giurato sul Corano“.
Chi è nata prima, la repressione o la lotta armata? Sfogliando le pagine del rapporto, il capo degli osservatori fornisce in modo esplicito la sua versione dei fatti circa la questione su chi sia stato a sparare per primo in Siria.
Nel constatare che i rivoltosi usano ora razzi anti-carro e bombe termiche (si riferisce alle “bombe incendiarie”?), Dabi afferma che sul terreno opera un elemento armato che non era stato preso in considerazione dal protocollo, firmato dalla Lega Araba e dalle autorità siriane e negoziato tra ottobre e novembre 2011.
Perché non era stato preso in considerazione? Perché non vi erano prove del fatto che in alcune zone della Siria fossero operativi soldati unitisi ai manifestanti anti-regime? La domanda rimane aperta.
Ma Dabi prosegue: “Si tratta di uno sviluppo sul terreno che è stato un diretto risultato dell’eccessivo uso della forza da parte delle forze del governo siriano”. Un’affermazione che non lascia dubbi d’interpretazione: ai manifestanti si sono uniti i disertori e altri civili armati in seguito alla repressione del regime. “In alcune zone – si legge nel rapporto – questi elementi armati attaccano le forze di sicurezza e i cittadini. La reazione del governo è violenta. I civili innocenti ne pagano il prezzo: molti di loro vengono uccisi o feriti”.
“Cifre esagerate dai media”. Un’altra importante precisazione di Dabi riguarda quella che lui chiama “esagerazione” da parte dei media “della natura degli incidenti” e del “numero delle persone uccise e ferite”. La violenza in Siria, per il generale sudanese, non ha dimensioni così tragiche come molti mezzi d’informazione riportano.
A quasi un anno dallo scoppio delle prime proteste e della repressione, la Lega Araba non ha però fornito finora un proprio bilancio aggiornato delle vittime, né di quelle civili né di quelle militari. Questo aiuterebbe a fare chiarezza e ad evitare ai media di cadere nella trappola delle rispettive propagande. I bilanci più aggiornati e dettagliati sono quelli che provengono dagli attivisti, mentre i media di regime rimangono tuttora molto vaghi in merito.
“Jacquier ucciso dall’opposizione”. Dabi fa piazza pulita dei dubbi riguardanti anche un’altra oscura vicenda, quella relativa alla morte a Homs l’11 gennaio scorso del giornalista francese Gilles Jacquier di France2. Il reporter francese – afferma il testo – è stato “ucciso da un mortaio sparato dall’opposizione”, togliendo quindi la parola a tutti coloro che ipotizzavano il coinvolgimento di entità armate lealiste.
Rimane però aperta la domanda: se “l’opposizione” – ovvero l’Esercito siriano libero (Esl, i disertori) – possiede mortai, perché mai non risponde al fuoco dell’artiglieria governativa che da giorni si scatena su Homs contro i quartieri in rivolta? O forse questa “opposizione” ha deciso di sparare l’unico mortaio in suo possesso sul quartiere lealista dove – guarda caso – si trovava il gruppo di giornalisti occidentali?
“I cinesi ci hanno regalato radiotrasmittenti”. Di estremo interesse sono inoltre i paragrafi del rapporto che Dabi dedica allo scarso equipaggiamento in dotazione degli osservatori arabi.
Il generale sudanese denuncia il fatto che per 166 delegati la missione aveva a disposizione solo dieci telefoni satellitari (di marca Thuraya), indispensabili in zone dove non è assicurata, temporaneamente o stabilmente, la copertura delle reti cellulari locali. Il telefono satellitare – ricorda Dabi – non può essere usato all’interno di edifici ma solo all’esterno (perché possa cogliere il segnale dai satelliti), limitando così l’uso degli apparecchi.
Nell’ambito poi della penuria di mezzi di comunicazione, il capo missione riferisce che gli osservatori non avevano abbastanza radiotrasmittenti portatili, tanto da indurre l’impietosita ambasciata cinese a Damasco a donare dieci walkie-talkie ai delegati.
“I siriani hanno confiscato parte della nostra attrezzatura”. Ancora Dabi ci informa che parte dell’attrezzatura e del materiale in dotazione alla missione è stato sequestrato dalle autorità siriane al confine con la Giordania. Una violazione del protocollo?
Per quanto riguarda i mezzi di trasporto, la missione – segnala il generale – aveva a disposizione 38 veicoli di cui 23 blindati e 15 no. “Un numero insufficiente” per 166 osservatori.
La missione è stata così costretta ad affittare localmente delle auto con autisti. Ma dopo i primi episodi in cui osservatori arabi si sono trovati bersaglio di colpi di arma da fuoco o di violente proteste, le compagnie siriane hanno annullato i contratti, ritirando le vetture e gli autisti per timore di danni ai mezzi e per salvaguardare l’incolumità dei loro dipendenti.
Dulcis in fundo, i limiti degli osservatori. Questo paragrafo è da leggere tutto d’un fiato ed è forse quello che illustra meglio le ragioni interne che hanno determinato la debolezza della missione. Dabi parla di “esperti non tutti qualificati per il lavoro, senza esperienza e non in grado di assumersi responsabilità (…) Altri hanno sottovalutato il peso della responsabilità (…) Alcuni erano anziani e altri ancora soffrono di condizioni di salute che impedivano di svolgere i loro compiti”.
“(…) Alcuni non hanno rispettato l’impegno assunto per ragioni personali, mentre altri hanno addotto pretesti inconsistenti e inaccettabili. (…) Alcuni non hanno onorato il loro giuramento, contattando rappresentanti dei loro paesi e trasmettendo valutazioni esagerate degli eventi sul terreno”. Il riferimento qui è implicito a quegli osservatori – come l’algerino Anwar Malek – che si sono dissociati dalla missione mentre questa era ancora in corso e hanno rilasciato dichiarazioni alla stampa, accusando apertamente il regime siriano di violazioni.
“(…) Altri che operavano fuori Damasco hanno chiesto di alloggiare in alberghi di livello pari a quelli della capitale o hanno chiesto compensazioni economiche”, prosegue Dabi. “Non avendole ottenute, hanno chiesto di rimanere a Damasco. (…) Alcuni non conoscevano a sufficienza il territorio e la sua geografia. Altri hanno pensato che la loro visita in Siria fosse di piacere (…)”. (Limesonline, 10 febbraio 2012).
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