Tra Damasco e il monastero di Mar Musa le percezioni cambiano, e si sfumano. Si dilatano o si restringono le possibilità di una caduta del regime a seconda degli interlocutori.
Oggi, 3 ottobre 2011, fa ancora caldo a Damasco, quasi che l’estate tardasse ad andar via, come le manifestazioni, che perdurano da oltre sei mesi, e coinvolgono pressoché tutte le aree del Paese.
Si è conclusa sabato 1 ottobre, nel monastero di mar Mar Musa al-Habashi (del santo Musa, o Mosé, l’Abissino) la settimana dedicata al digiuno e alla preghiera, alla meditazione e al silenzio, necessari per riflettere circa l’attuale situazione che travolge la Siria.
Ho avuto l’occasione di condividere nella comunità cristiana del monastero arroccato su un’impervia parete rocciosa, in mezzo al deserto, l’ultima delle giornate, il venerdì. Giorno peculiare da mesi, che da inizio ad una macabra routine di manifestazioni e repressione, che si trascina dalla tarda mattinata con la preghiera del venerdì, sino alla sera.
Chi siede davanti alle emittenti panarabe e occidentali vede salire il numero dei morti nel giro di poche ore, per arrivare al giorno seguente, il sabato, denso di funerali e cortei funebri (tashi3). Si riprende una certa normalità la domenica.
Ma il venerdì è il giorno in cui si sconsigliano i viaggi e gli spostamenti. Tant’è che al “Garage Abassiyn”, da cui partono al-vanat (i pulmini che trasportano una decina di passeggeri) per Mar Musa, mi si chiede se non abbia timore a spostarmi da sola e di venerdì. Ribatto che è ancora mattina presto, prima degli eventi (ahdath, che inizia a ricordare il modo in cui venivano descritte le prime scintille di guerra civile a Beirut nella primavera del ’75, accadimenti, eventi, fatti).
A Mar Musa ci si arriva a tappe. Col van sino a Nebk, ultimo villaggio, poi il deserto, con le buste di plastica che invadono, deturpandolo, il paesaggio, i barili pieni di sabbia, dipinti a bande rosse, bianche e nere, come la bandiera siriana, segnalo dell’ingresso dei luoghi adibiti ai soldati dell’esercito.
Un posto di blocco, hajiz, dove ci controllano i passaporti. siamo rimaste solo in tre ormai: io e due signore siriane, musulmane. Tutti sono scesi a scaglioni: chi nei paesi vicini e chi in mezzo al nulla, verso gli accampamenti militari.
Si arriva in cima a piedi, percorrendo una lunga scalinata per una ventina di minuti e scoprendo un monastero pieno di ragazzi e ragazze intenti a tagliare le verdure, tutti ospiti che provengono da Aleppo, Damasco, Homs, Nebk, Seidnayya, Suayda.
Si fa subito amicizia con chi non riesce più a lasciare questa rocca di attività manuali e spirituali, letture nella biblioteca e meditazione nella chiesa, o ti racconta di venire da uno dei quartieri più rivoltosi di Homs: Bab as-Siba3, e spera di far rientro a casa bi salame, in pace.
Ascolto pensieri e racconti di chi vive gli eventi da siriano, da dentro, da ventenne.
H. mi dice di aver preso parte alla prima manifestazione (muzahara) in Siria, a Damasco, il 15 marzo scorso. E di essere pertanto finito in carcere per circa un mese. Di qui la scelta di ricerca della pace nel luogo a Dio consacrato. Dalle sue parole pare emergere un futuro di divisioni, persino all’interno dei singoli nuclei familiari, e di guerra civile.
D. prospetta altri scenari futuri: la divisione dell’esercito, con una parte che dovrebbe passare dalla parte dei manifestanti (e questo, secondo lui, faciliterebbe le cose); oppure un progressivo e crescente movimento di armi: i mutazahirin, i manifestanti, si armano; fino alla prospettiva estrema di un aiuto esterno, il famigerato tadakhul khariji, l’intervento (intromissione) straniero che il regime tenta di evitare.
Ma non si nega un futuro in cui la Siria verrà smembrata: con una parte alawita nel sahel (la costa che dal confine turco scende sino a lambire Lattaqqiya (l’antica Laodicea) e Tartus (Tortosa, città crociata), e il resto da Homs al sud sunnita.
“Ma i cristiani?”, chiedo, minoranza importante, che, a differenza delle altre, come drusi, il cui avamposto è al sud, intorno a Suayda, alawiti della costa, yazidi al confine con l’Iraq, curdi al nord, appena sotto la Turchia, sono sparsi e distribuiti su tutto il territorio nazionale.
“In realtà non sono loro il problema, la questione è tra alawiti (branca minoritaria dello sciismo) e sunniti”.
Giunge l’ora della preghiera, dove si raccolgono i pensieri, gli auspici, gli appelli al dialogo, continuo e incessante, alla non-violenza, alla libertà di espressione e di pensiero, alla ricerca di una fonte che spenga la sete di una conoscenza vera.
“Alla fine tutti amiamo il nostro Paese. Ci sono idee diverse, è normale. Ciò che non è normale è che non ci ascoltiamo l’un l’altro”, afferma A., musulmana.
Perché a Mar Musa si prega insieme, cristiani e musulmani, in un cammino verso l’ecumenismo che unisce i fedeli presenti. Un cammino iniziato nei primi anni ’80 da un coraggioso e determinato padre gesuita, Paolo Dall’Oglio: sforzo materiale, di restauro e lavori di recupero degli splendidi affreschi della chiesa, e spirituale, in Siria, per la soluzione del dialogo, anelato, tra le religioni.
“Prego per chi ha paura, perché tutti abbiamo paura in questi giorni. Che Dio sia più grande delle divisioni (inshiqaqat)”.
“Se sono contro il regime non vuol dire che sono contro la Siria”.
Ecco, ad occhi chiusi, ci si esprime, sotto gli occhi di Simeone lo Stilita, affrescato.
Si legge un passo tratto dal Libro di Ester, si usano tamburi e fisarmonica, si canta.
Padre Paolo, le suore, i frati e i novizi e le novizie bevono solo acqua. Io prendo del te zuccherato. Romperemo il digiuno alle 18,30.
Mi si invita ad una lunga passeggiata sui monti. Siamo italiani, palestinesi e siriani insieme. E le opinioni sono diverse, ma la paura accomuna le menti.
A me sembra di percepire un cambiamento nelle percezioni. Forse, sino a diverse settimane fa pareva spirasse ancora un tenue ottimismo, che si uscisse dall’impasse di manifestazioni e repressione. Ora, invece, alla luce del fatto che la rivolta si sta armando, e a tratti abbandona il suo primigenio carattere pacifico, le opzioni future si tingono delle tinte più fosche: guerra civile, smembramento della Siria, intervento esterno.
O un regime che non cadrà, con tutte le aspirazioni dei manifestanti.
Da Mar Musa la campana che invita alla preghiera, che sancisce l’inizio del buio e della meditazione come anche l’ora dei pasti, non cessa di richiamare al dialogo, alla non-violenza, alla riconciliazione, ad un cammino che porti ad una Democrazia Consensuale.
Faccio rientro a Damasco nella tarda serata di sabato, condividendo il viaggio di ritorno con S., greco-ortodosso di Damasco. Velato dall’ombra di un futuro che ci si affanna a predire.
L’indomani mi riprometto di scrivere a R., di Homs, per accertarmi che giunga a Bab as-Siba3 incolume.
Lascia una risposta