(Europa Quotidiano, 5 ottobre 2011) A poche ore dalla formalizzazione dei veti russo e cinese in seno al Consiglio di sicurezza alla proposta di risoluzione, sponsorizzata da Usa, Francia e Gran Bretagna, di condanna della repressione in corso in Siria da quasi sette mesi, Mosca si è sentita in dovere di giustificare la sua decisione.
Ma anche di annunciare che nelle prossime settimane, e comunque entro ottobre, riceverà due delegazioni di oppositori siriani: una di quelli in patria, di fatto meno radicali, e un’altra del Consiglio nazionale la cui formazione è stata annunciata domenica a Istanbul.
Il suo presidente, Burhan Ghalioun, tornato a Parigi dove insegna sociologia politica alla Sorbona, ha ieri ammonito Mosca: «Sostenere Bashar al Assad nel suo progetto militarista e fascista non incoraggia certo il popolo siriano a continuare la rivoluzione in modo pacifico. I russi – ha detto – incoraggiano la violenza».
La Russia non crede che il regime degli al Assad possa cadere. E preferisce vedere il suo decennale alleato scivolare lentamente verso una guerra civile controllata da Damasco.
Intanto, nell’attesa di capire la forza di altri interlocutori per un possibile ma remoto post-Assad, il Cremino tiene alto il prezzo di un eventuale suo riposizionamento di fronte alla questione siriana.
Dai tempi dell’Urss, Mosca confida in Damasco per mantenersi presente nel Mediterraneo. Ancora oggi, oltre a mantenere una sua base navale a Latakia e a vendere alla Siria carichi di armi obsolete, la Russia ha bisogno del paese arabo per contare ancora qualcosa nel dossier israelo-palestinese.
Poche decine di chilometri separano la base russa di Latakia dal confine con la Turchia. La grande cartina geografica che per anni ha accolto i viaggiatori all’aeroporto internazionale di Damasco mostrava l’attuale provincia turca dell’Hatay all’interno dei confini siriani.
In quelle “terre irredente”, nel 1939 strappate alla Siria dalla Francia e donate all’allora giovane Repubblica di Turchia, sono cominciate ieri le esercitazioni militari della trentanovesima brigata meccanizzata di fanteria turca, rinforzata da 730 soldati della riserva.
La mobilitazione a ridosso, della provincia siriana di Idlib, durerà nove giorni e non a caso è iniziata all’indomani del voto del Consiglio di sicurezza. Ankara ha ribadito che a giorni annuncerà un pacchetto di sanzioni contro Damasco.
Il premier Tayyip Erdogan si recherà a breve nelle tendopoli dell’Hatay, dove sono attualmente ospitati circa 8mila profughi siriani, e che dopo quella visita, effettuata in coincidenza delle esercitazioni militari, formalizzerà le misure nei confronti del suo ex amico e alleato il raìs Bashar al Assad.
«Quel che sta accadendo in Siria non è una questione interna siriana», ha detto ieri il ministro degli esteri Ahmet Davutoglu. «È diventata una tragedia per l’umanità». Ankara aveva già annunciato nelle scorse settimane di aver fermato un cargo contenente armi diretto in Siria.
La decisione di avviare una mobilitazione militare al confine con la provincia di Idlib, uno degli epicentri sunniti della protesta, ha confermato in alcuni osservatori l’ipotesi che Ankara possa in futuro considerare l’opzione di creare una zona cuscinetto in territorio siriano.
Una mossa in linea, almeno sulla carta, con gli accordi di Adana siglati e ratificati dai due paesi nel biennio 1998-99 e secondo i quali un’eventuale sconfinamento turco, in funzione anti-separatisti del Pkk curdo, è legittimo.
Se la Turchia, membro della Nato, continua ad alzare la voce e a promettere misure anti-Assad, il raìs di Damasco aveva formulato nei mesi scorsi al ministro Davutoglu una minaccia precisa: dare fuoco al Medio Oriente, servendosi di Iran e del movimento sciita libanese Hezbollah per attaccare interessi occidentali, in caso di un intervento Nato in Siria (Articolo apparso su Europa Quotidiano del 6 ottobre 2011).
Lascia una risposta