(di Lorenzo Trombetta, Limesonline, 6 aprile 2012). L’avanguardia della missione degli osservatori Onuincaricata di monitorare l’auspicato cessate il fuoco in Siria è giunta nelle ultime ore a Damasco, guidata dal generale norvegese Robert Mood.
La squadra, composta da una decina di rappresentanti del dipartimento di missioni di peacekeeping delle Nazioni Unite, è nella capitale siriana per incontrare il sottosegretario agli esteri Faysal Miqdad, a sua volta incaricato dal governo di negoziare con la missione delle Nazioni Unite.
Secondo l’ufficio di Kofi Annan, inviato speciale congiunto Onu-Lega araba per la Siria, la squadra sarà composta da 200-250 militari disarmati che dovrebbero essere dispiegati nel paese entro i prossimi due mesi – quindi entro metà giugno – per verificare l’applicazione del “piano di pace” elaborato dallo stesso Annan.
Questo testo, composto da sei punti, assomiglia per metà al piano della Lega araba elaborato a novembre. Anche allora il regime siriano annunciò formalmente di averlo accettato ma di fatto applicò in modo molto parziale solo alcuni punti: il ritiro delle truppe dai centri urbani, che fu cosmetico; la liberazione di tutti i detenuti politici, anche se in realtà furono liberati meno di un terzo di quelli in carcere e per la maggior parte erano criminali comuni; l’apertura delle frontiere ai giornalisti stranieri e l’assicurazione di potersi muovere liberamente nel paese – furono concessi pochi visti d’ingresso e i reporter entrati in via ufficiale non poterono lavorare in piena libertà.
Le differenze sostanziali tra il piano Annan e quello della Lega araba sono due. La prima è che è stata rimossa la richiesta esplicita al presidente Bashar al Assad di dimettersi e di lasciare il potere al suo vice Faruq al Sharaa. In tal caso comunque il regime sarebbe rimasto saldamente in mano agli al Assad e ai loro alleati, visto che Sharaa è da circa dieci anni un semplice esecutore.
La seconda differenza è che è stata formalizzata la richiesta russa di equiparare la repressione compiuta incessantemente e impunemente da 13 mesi dal regime e le azioni di resistenza (“terrorismo”, secondo la narrativa di Damasco e dei suoi sostenitori) dell’Esercito libero (Esl) dei disertori cui col passare del tempo si sono unite anche milizie di civili delle zone più colpite.
Nel testo di Annan l’espressione “violenze armate” è sempre accompagnata dalla precisazione “in tutte le loro forme e compiute da ogni parte”. Il principio di equilibrio era stato di fatto sancito e legittimato dal rapporto finale della missione di osservatori arabi, guidata dal generale sudanese Muhammad Dabi. Nel testo di gennaio 2012 si affermava l’esistenza di forze che aprivano il fuoco contro l’esercito governativo.
Nei giorni scorsi Annan aveva annunciato di aver ottenuto da Damascol’assicurazione che entro 48 ore dopo il 10 aprile – quindi il 12 aprile – sarebbe stato raggiunto il cessate il fuoco e che il ritiro delle truppe sarebbe cominciato anche prima. A tal proposito, il quotidiano al Watan di Damasco, di proprietà di una cordata di imprenditori vicini al regime, affermava, citando una “fonte (siriana) responsabile di alto livello” che “non esiste alcuna scadenza e che il 10 aprile è la data legata all’inizio e non alla fine del ritiro delle unità dell’esercito” e che “questa data non costituisce un limite temporale in quanto tale”.
“Il governo siriano – proseguiva la fonte citata dal quotidiano – ha informato Annan dell’inizio del ritiro di alcune località, tra cui Zabadani (sobborgo di Damasco) e alcune regioni di Idlib (nord-ovest), sottolineando il fatto che l’operazione di disimpegno si completerà solo in base alla situazione sul terreno in ogni regione”.
Il regime mette le mani avanti, ricordando che il ritiro militare avverrà solo se e quando sarà riportato il controllo nelle zone dove operano i “terroristi”. Il piano Annan sarà sì applicato, ma solo quando lo consentiranno le condizioni sul campo. Sarà difficile per l’Onu contestare la versione di Damasco. O comunque varrà il principio (ribadito da tanti indiretti sostenitori del regime, anche italiani) che “è impossibile capire cosa succede in Siria” e che dunque “la parola di Damasco contro la parola degli attivisti”.
Al Watan cita poi il ministero degli Esteri siriano, secondo cui il ritiro delle truppe governative è legato “all’impegno delle altre parti a rispettare il piano e alle garanzie ottenute in tal senso dall’inviato Onu”. Si ribadisce che non ci potrà essere un vero disimpegno, finché i “terroristi” non la smetteranno di mettere a ferro e fuoco la Siria, “campione dell’arabismo, della resistenza filo-palestinese e per questo vittima del complotto sionista-saudita-qatarino-turco”. Un punto che è pienamente in linea con la logica di Damasco e dei suoi alleati, per cui i responsabili delle violenze non sono le forze del regime bensì gli agenti del complotto. E quindi sono questi a dover prima di tutto cessare le violenze.
In questa logica, si comprende meglio la conclusione dell’articolo di al Watan,secondo cui Annan “non ha compiuto nessun passo avanti a livello regionale, per quanto riguarda i paesi del Golfo e la Turchia, e a livello interno, per quanto riguarda l’opposizione armata”.
Come previsto dal suo piano, l’inviato speciale dell’Onu deve ricevere dalla cosiddetta opposizione (mai termine è stato così ambiguo e inadatto al contesto siriano) delle assicurazioni sul rispetto del cessate il fuoco da parte loro. Il riferimento ai paesi del Golfo e alla Turchia è dato dal fatto che essi sono visti da Damasco come i primi sponsor dell'”opposizione armata”, dei “terroristi”. Rimanendo nella logica espressa dal regime, al Watan indica un altro ostacolo all’applicazione del piano Annan: la non collaborazione di Stati della regione come Turchia, Arabia Saudita e Qatar.
Sono loro – afferma Damasco – che non cessano i rifornimenti di soldi e armi ai terroristi. Così facendo – aggiungo dando voce al comune sentire dei lealisti siriani – “impediscono a noi, semplici difensori della Siria campione dell’arabismo, di ritirare le nostre truppe dalle città, che sono lì “a difesa dei civili inermi”.
Quando nei giorni successivi al 12 aprile – ovvero quando dovrebbe scattare il cessate il fuoco – le cancellerie occidentali e magari lo stesso Annan chiederanno a Damasco spiegazioni sul fatto che in Siria si continua a sparare e morire, la risposta sarà – potete giurarci – la seguente: non possiamo ritirarci fino a quando i terroristi minacceranno la sicurezza dei nostri cittadini e la sicurezza della nostra nazione.
Si invocherà la sovranità dello Stato e la legittimità del regime. La Russia esprimerà solidarietà a Damasco. Ricomincerà il balletto di consultazioni diplomatiche tra Bruxelles, New York, Ankara e Parigi. Intanto altre decine – se non centinaia – di siriani avranno smesso di vivere.
Ma non è finita. Un ulteriore elemento critico del piano Annan e della missione di osservatori che dovrebbe essere operativa entro giugno prossimo è messo in evidenza da un paragrafo della dichiarazione governativa siriana riportata da al Watan e relativa a come le autorità pensano di gestire la “forza di pace” internazionale.
Riferendosi all’arrivo a Damasco del generale norvegese Mood, il giornale riferisce che “sono stati presi accordi tra le parti per cui i movimenti degli osservatori in futuro si svolgeranno in coordinamento con le autorità siriane incaricate di assicurare la loro protezione. Le Nazioni Unite hanno inoltre presentato alla controparte siriana delle mappe chiarendo quali sono i territori che gli osservatori intendono visitare e dove intendono dispiegarsi. Su questo punto – precisa il quotidiano – non è però stato raggiunto ancora alcun accordo”.
Traducendo il linguaggio del regime siriano: gli osservatori si muoveranno solo dopo aver informato Damasco dei loro spostamenti; non si muoveranno da soli ma sempre accompagnati da rappresentanti del regime “incaricati della loro protezione”. L’espressione è la stessa usata nel caso degli spostamenti degli osservatori della Lega Araba e dei giornalisti accreditati e cela, nemmeno troppo bene, l’esigenza di Assad di controllare che nessun “ospite” vada a curiosare dove non deve.
A questo si aggiunga il fatto che la missione Onu di osservazione del cessate il fuoco sarà composta – secondo i piani attuali – da non più di 250 osservatori disarmati. Un numero di poco superiore a quello degli osservatori arabi, giudicato insufficiente lo scorso gennaio non solo dai vertici dell’organizzazione panaraba, ma dalla stessa segretaria generale delle Nazioni Unite. Secondo gli auspici di Annan, una volta assicurato il cessate il fuoco il 12 aprile prossimo, arriverà in Siria il primo scaglione di un centinaio di osservatori, scelti tra gli attuali 149 della missione Untso – United Nations Truce Supervision Organisation.
Basata a Gerusalemme, in Israele, paese formalmente in guerra con la Siria dalla nascita dei due Stati nazionali indipendenti, l’Untso è stata la prima missione di peacekeeping dell’Onu a essere formata, nel 1948. La sua particolarità è che, a differenza di altre missioni Onu regionali (Undof sul Golan tra Israele e Siria; Unifil nel sud del Libano), non è assegnata a nessuno scenario particolare ma costituisce una forza esigua – appena 150 militari disarmati – di osservazione di pronto intervento da inviare nei teatri dove è in corso una crisi. Robert Mood, il generale norvegese attualmente a Damasco, è stato comandante di Untso dal 2009 fino al febbraio 2011, prima di esser richiamato allo Stato maggiore di Oslo.
Se è quasi impossibile immaginare come alle 6.00 del 12 aprile possa entrare realmente in vigore il cessate il fuoco e terminare quindi dopo 13 mesi la quotidiana mattanza di siriani, è assai difficile immaginare come un centinaio, e poi al massimo 250 baschi blu di Untso possano svolgere in modo efficace la loro missione… di “mantenimento della pace”. (Per Limesonline, 6 aprile 2012).
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