Siria, a Homs nasce la resistenza armata

Homs, manifestazione anti-regime il 18 novembre 2011 (Reuters)(di Lorenzo Trombetta) A Homs, terza città della Siria a nord di Damasco, “siamo quasi tutti potenzialmente o uccisi dalle forze lealiste o arrestati dai servizi di sicurezza e destinati alla tortura”. Per questo “molti di noi hanno deciso di imbracciare le armi come forma di resistenza”.

A parlare non è un militare che si è unito ai rivoltosi, ma un attivista di Homs che per i primi sette lunghi mesi di protesta ha coordinato il movimento non violento in uno dei principali epicentri della rivolta e della repressione. Fadel Ramzi, pseudonimo, ha circa 30 anni ed è fuggito dalla sua città fino a Beirut, passando per Damasco, attraversando i vari posti di blocco delle forze del regime di Bashar al Assad con la carta d’identità di un suo amico ucciso.”Anche se la foto sul documento non ti somiglia nessuno controlla veramente”, afferma parlando con l’ANSA.

“L’importante è che il nome non sia nelle liste dei ricercati”. Intervistato due mesi fa Fadel era ancora strenuamente convinto della validità della lotta pacifica: “Ora soltanto a pronunciare l’aggettivo ‘pacifico’ mi vergogno a Homs. Troppo sangue è stato versato”. Secondo il bilancio aggiornato dei Comitati di coordinamento locale, solo a Homs sono state uccise dalle forze lealiste dal 15 marzo a oggi 1.452 persone, su un totale di 4.431.

Solo oggi 21 novembre 2011 si contano almeno 15 uccisi, di cui una decina a Homs. Le autorità di Damasco attribuiscono le violenze a bande di terroristi armati dai Paesi confinanti e agenti di un complotto sionista-americano-saudita.

“Anche chi non è mai sceso in strada a manifestare rischia la vita a Homs”, afferma Fadel. “Se non vieni ucciso, molto probabilmente finisci in carcere. E se esci, dopo le torture, resti handicappato a vita”. Fadel ha passato tre settimane in isolamento ad aprile prima di esser rilasciato, ma di quell’esperienza non si sente ancora di parlare. Non ha invece indugi a spiegare perché, da nonviolento, ora legittima l’uso delle armi contro le forze di Assad.

“A Homs siamo orfani. Al di là delle prese di posizioni internazionali e delle dichiarazioni, nessuno ci aiuta. Ci stanno ammazzando come mosche. Il metodo pacifico non ci protegge. E persino gli atei ora pronunciano la frase ‘Solo Dio ci protegge’. Per questo – afferma – il minimo che possiamo fare è difenderci”. Stando al suo racconto, nei quartieri più colpiti, tutti a maggioranza sunnita, “da metà ottobre sono attive ronde di quartiere, formate dai giovani del rione”.

Secondo Fadel, “chi aveva delle armi a casa le ha messe a disposizione: pistole e fucili da caccia regolarmente denunciati”. Si tratta di ragazzi “tra i venti e i trent’anni. Non hanno il volto coperto e tutti sanno chi sono. Non hanno più nulla da perdere”. In Siria la leva è obbligatoria e quasi tutti i giovani hanno servito nelle file dell’esercito. “Ora sono armati anche di kalashnikov e qualche lanciagranate”, aggiunge l’attivista.

“Le armi si comprano dai contrabbandieri in Libano”, il cui confine è a poche decine di chilometri. “Ma la quantità è ancora limitata”, sostiene Fadel, che spera che comincino presto ad affluire più armi. I soldi per comprare le armi? “Provengono da collette di siriani all’estero o in patria”. Sul presunto sostegno straniero alla resistenza armata, Fadel è perentorio: “Sciocchezze. Se l’Arabia Saudita o la Turchia ci inviassero davvero armi, ne avremmo molte di più e di qualità migliore. Se dovesse accadere – continua – accoglieremo questo aiuto. E chi non lo farebbe al nostro posto?”.

Il regime accusa i terroristi di sparare ai civili. “Gli unici che sparano ai civili sono i lealisti”, ribatte. “Le ronde di quartiere puntano i fucili solo contro i posti di blocco e contro le pattuglie che aprono il fuoco per uccidere”. Homs è abitata per lo più da sunniti, con alcune sacche di alawiti e cristiani. I primi sono una branca dello sciismo a cui appartengono gli al-Assad e i clan a loro alleati al potere, mentre i secondi da decenni sostengono di fatto il regime. Fadel non nasconde che in città la tensione stia assumendo ormai risvolti confessionali, “ma ancora non siamo arrivati a sparare agli alawiti”, afferma.

Terrorizzata da quello che sta avvenendo nella sua città è Wafa, pseudonimo di una ragazza cristiana rifugiatasi a Damasco e interpellata telefonicamente. “Homs non è più sicura per noi. Anche se siamo fuori dalla lotta, ne saremo presto vittime”. (Scritto per ANSA il 21 novembre 2011).