L’indice corto e grassoccio della mano destra tamburellava sulla tastiera il mio nome e gli oltre 40 gradi al confine tra Libano e Siria rendevano l’attesa davvero infinita. Le mostrine nere e blu sulle spalle dell’ufficiale canuto e quanto mai sudato sembravano essere un’attrazione davvero unica per le due mosche bloccate anche loro al di la del vetro che separava me dall’ufficiale siriano.
Qualche istante dopo aver terminato di digitare il mio nome, il sergente mi rivolse uno sguardo secco e perforante, quasi intendesse volere per forza scorgere altri motivi del mio viaggio in Siria. Quattro interminabili secondi che sembravano l’ennesimo remake di uno di quei film di Sergio Leone prima di un duello a fuoco. Beh il caldo almeno c’era tutto. Invece delle pistole, l’ufficiale prese rapidamente il timbro del visto da mettere sul passaporto. Forse troppo velocemente per evitare che una goccia di sudore dalla sua fronte cascasse in pieno sulla pagina aperta del mio passaporto.
E cosi ebbe inizio il mio viaggio in Siria. Strettamente pensato per una toccata e fuga di tre giorni/due notti, il piano prevedeva una visita alle rovine nella città di Palmira (Tadmur in arabo) e un giro nella straordinaria Damasco (che mio parere, con Roma, sono le città più belle io abbia mai visitato). Il tutto nella speranza di fare quante più foto possibili e trovare un po’ di quel sapore mediorientale che Beirut, salvo qualche piccolo ricordo in qualche angolo di Aschrafie e Hamra, ha completamente perso.
Il taxi su cui viaggiavo dopo tre ore esatte arriva nella stazione di Somaryya, alle porte di Damasco. Da li, con un altro taxi e una corsa di quaranta minuti (al prezzo mal concordato di 3 dollari- dimenticavo la necessità di contrattare su qualunque cosa da queste parti) arrivo all’altra stazione di Damasco di cui non ricordo il nome, dalla quale pullman piuttosto lussuosi, per soli 4 dollari, partono alla volta di Hama, Aleppo e ovviamente Palmira. E cosi, pagato il biglietto, via, si parte per Tadmur, poco distante dal confine iracheno.
Dopo tre ore di viaggio in mezzo al deserto siriano (il termometro esterno del pullman segnava cinquantuno gradi- e diciotto all’interno con punte fino a 16) e aver passato più di un “bar” chiamato Baghdad Café (immagino Percy Adlon sia passato da queste parti), ecco che di colpo vengo gentilmente chiesto di scendere su una strada qualunque, in mezzo a tre case e ad un incrocio enorme. “Questa e’ Palmira, buon soggiorno”.
Il tempo di scaricare il mio zaino e capire dove avrei passato la notte, non avendo prenotato un bell’accidente sempre in virtù del fatto che “ in qualche modo me la caverò” ed il pullman aveva già ripreso la sua folle corsa verso la destinazione successiva. Attorno a me nessun segno di vita. Poi, in lontananza, il rumore di una macchina I cui contorni distorti dal calore riflesso sull’asfalto andavano via via delinenandosi mano a mano che l’automobile si avvicinava.
Con una brusca frenata e un altrettanto lentissimo finestrino automatico abbassarsi, il tassista mi chiede “taxi”? Beh, di solito avrei detto di no, ma la mancanza di alternative mi metteva in una posizione abbastanza bizzarra per provare a contrattare sul prezzo o dire semplicemente no grazie. E cosi rimanendo nel dubbio scelgo di salire, abbozzo a due parole in arabo per spiegare che voglio andare nell’hotel più vicino per cercare una camera o quanto meno un letto per la notte. Il tempo d’ingranare la prima e il passeggero che non avevo visto seduto sul sedile anteriore con due meloni in mano si volta e mi chiede: “italiano??” Beh, si dico io. E cosi ho conosciuto tale Raffaele qualche cosa da Milano, 22 anni, che mi dice “ vivo per viaggiare”.
Si parte, destinazione un hotel dal nome sconosciuto a un chilometro dalle rovine. Dopo I saluti di rito e una vaga impressione di déjà vu (forse con Marrakech Express di Salvatores??) scende dalla macchina e mi dice: ”ci penso io. Tanto a te non da fastidio se condividiamo la stanza vero? Risparmiamo un po’”. Ancora adesso non so se il motivo per cui ho accettato era fare una vacanza zingara fino in fondo o per continuare una chiacchierata italiana all’ombra di splendide rovine romane.
A controllare la stanza andiamo insieme e lui, dopo una veloce occhiata, mi dice” qualunque cosa ti dica… fai la faccia di quello che non e’ contento e abbassiamo ancora il prezzo”.
Sì, peccato che in tutta la Siria e chissà per quale motivo il proprietario che era con noi parlava italiano. Spiegargli poi che quello che aveva detto Raffaele era un gioco di parole italiano per vedere quanto I siriani fossero flessibili con I prezzi, non e’ un’impresa facile. Comunque una volta risolta l’incomprensione, la camera, per la bellezza di 10 dollari a testa, era nostra! Immagino sia stato per questo “gioco di parole” che dopo essere andati a fare le fotografie delle rovine al tramonto, al rientro in hotel, il padrone ci dice che la camera non era più libera e che a quell’ora la sola soluzione e’ di andare da un suo amico vicino di casa che per lo stesso prezzo ci avrebbe ospitato”. E cosi, senza molte scelte a disposizione, accettiamo e portiamo I nostri zaini dall’amico vicino.
Raffaele e’un ragazzone milanese, appena laureato all’ISEF che si guadagna I soldi come personal trainer. Una volta raccolto un piccolo gruzzolo, parte e sta via dai 20 ai 40 giorni per viaggio. Cosi ha fatto per la Tailandia e Cambogia, il coast-to-coast Americano e ora, dopo essere arrivato a Istanbul e aver visitato la Cappadocia e gran parte della Siria, punta verso Beirut, la Giordania, via Siria, e Israele. Sembra sapere della questione dei visti tra Israele e gli altri stati arabi ufficialmente in guerra e cosi saltiamo il discorso.
Fin dal principio vedo che e’ ben più di un chiacchierone semi balbuziente che invece di parlare grida e se nei primi 5 minuti risulta essere piacevole, poi si trasforma in un elemento logorroico dalle battute terribili. Si vanta di essere un gran viaggiatore e di appartenere ad una famiglia mooooolto facoltosa di Milano “ mia madre e’ strapiena di soldi”, mi dice con un forte accento Lombardo, “ma io quando viaggio, forse come segno di ribellione, non voglio spendere più di 10 dollari per notte”. Insomma, gli dico io ironicamente, “ci e’ andata proprio di culo ad aver trovato la camera a quel prezzo!!!”.
La conversazione di sposta poi sulla fotografia. Non gli era di certo sfuggita la mia Nikon e cosi inizia una revisione di tutte le caratteristiche tecniche della mia camera: pixels, MB, raw, focale, ISO, durata delle batterie, video in alta risoluzione. Un incubo. Anche perché se la cosa può essere piacevole per non piu’ di 15 secondi per me, parlare una cena intera di specifiche tecniche di una macchina fotografica, scusate, ma e’ un vero rompimento di… scatole. Dopo una cena a base di Daal indiano e riso (un tuffo nel passato alquanto inatteso, per lo meno rispetto al posto in cui mi trovavo) a causa della presenza dei cuochi indiani dell’albergo, ci avviamo in camera dopo aver ascoltato da Raffaele l’ennesima caratteristica incredibile della mia macchina fotografica e dell’assoluta sopravvalutazione delle Canon…
Prima di andare a letto e aver definito un paio di regole di base per la comune sopravvivenza, stabiliamo il piano dell’indomani mattina: bus verso Damasco con visita/shopping alla città vecchia e ricerca di un albergo.
La notte passa bene e l’indomani mattina, dopo un’altra breve sessione fotografica dal castello che sovrasta Aleppo e un’altra dose di informazioni sulla mia Nikon che gli erano venute in mente durante la notte, si riparte per Damasco. Riesco ad evitare miracolosamente tre ore di chiacchiere folli con Raffaele dicendo che essendo troppo grosso ed essendo il pullman mezzo vuoto, e’ meglio se facciamo un viaggio comodo entrambi occupando due sedili ciascuno. Accetta senza troppi problemi, lusingato dal suo “essere grosso” e per tre ore le mie orecchie hanno una pausa. Come arriviamo a Damasco, la sua voce squillante e traballante comincia a farsi più forte e oltre a essere perennemente preoccupato sul prezzo dell’albergo che dovrà pagare per la notte, continua in un via e vai di “ma che figata” che dopo 5 minuti in taxi verso il centro, le mie orecchie chiedono di nuovo un break.
Come se non bastasse, un’altra cosa che comincia a diventare sempre più insostenibile e’ l’appellativo che Raffaele come molti milanesi (non me ne vogliate amici Lombardi, ma e’ una caratteristica piuttosto comune) usano come grande segno di confidenza (prego correggetemi se sbaglio): ZIO. “ Zio, lo sai che e’ una figata ‘sto posto” e’ stata la frase che mi ha letteralmente trapanato I timpani per due giorni interi.
E così, arrivati al suq al-Hamidiyye (il vecchio mercato coperto), situato attorno alla meravigliosa moschea degli Omayyadi, le mie orecchie sono da un lato affascinate dal voce dei venditori siriani e dall’altra altre nuove caratteristiche della mia Nikon (e della sua sua Samsung, questa volta). Poi la svolta che ancora una volta mi permette di guadagnare tempo: “Raffaele” faccio io” senti, io voglio andare in un albergo a Damasco molto caratteristico che mi hanno indicato degli amici” Se vuoi venire a vederlo sei il benvenuto.
Certo sarà un pochino al di fuori del tuo budget giornaliero che ti sei imposto, ma credimi ne vale la pena! E questa volta, però ognuno per si prende la sua stanza singola!” E cosi dopo essersi accertato che il prezzo era ben al di la di qualunque suo budget speso prima di allora ci separiamo per ritrovarci per cena nel magnifico e ristorante di Beit Jabri, all’interno di una vecchia casa damascena, un must per chiunque intendesse andare a Damasco.
L’albergo in cui pernotterò si chiama Antique Khan Hotel (http://www.antiquekhan-hotel.com/) ed è davvero un piccolo gioiello, con poche camere a disposizione, situato ad una decina di minuti a piedi dal suq al-Hamidiyye, in una delle labirintiche ma caratteristiche strade che circondano il quartiere del mercato. La stanza (singola e doppia hanno il medesimo costo, cento dollari, comprendono anche la prima colazione) e’ perfettamente arredata in stile arabeggiante, fornita di climatizzatore, televisore a colori e internet wi-fi. L’atrio interno conta l’immancabile presenza al centro di una fontanella, e da comodi divani che permettono di gustare fino in fondo la tranquillità e la pace che questo albergo offre.
Cosi, stremati dal viaggio e dal fatto che da inizio giornata avevamo mangiato un solo misero panino al formaggio ci sediamo e aspettiamo (o almeno ci proviamo) che il muezzin termini la preghiera. Mentre la tavola viene abbondantemente arricchita con fattush, hummus, fatteh, mutabbal e altre delizie mediorientali, il buon Raffaele comincia a chiedermi, visto la mia esperienza in missioni di pace, se per sbaglio avessi mai incontrato dei mercenari e se si, quanto potessi pensare fosse il loro stipendio.
Non avendone mai incontrato uno, salvo un ex ufficiale della legione straniera che ora lavora per un’ organizzazione internazionale come addetto alla sicurezza e non avendo comunque mai neanche chiesto quanto fosse il suo salario mensile, ho ammesso, con tutta onesta e franchezza che non lo potevo sapere. “E comunque”, dico io, “ questa gente, la maggior parte delle volte non ha tutte le rotelle a posto” Non riesco a terminare la frase che con la sua voce squillante e ba-ba-balbuziente che comincia a spiegarmi una teoria sulla psichiatria/psicologia moderna elaborata dal grande Ericsson, che a me oltre al produttore di cellulari, non ricorda nessun altro, secondo la quale la devianza e’ un concetto molto soggettivo e che occorre essere analizzata dal punto di vista della società cui appartiene un determinato individuo “deviante”.
Se invece di intestardirmi a capire cosa volesse dire, mi fossi limitato a parlare di qualunque altra cosa, mi sarei gustato decisamente di più l’intero ambiente che mi circondava e meno I ragionamenti contorti di Raffaele. Dopo due ore di esempi (ne ho contati almeno 15) in cui il mio caro interlocutore sosteneva che un mercenario, se contestualizzato insieme ad altri suoi colleghi e’ uno con tutte le rotelle a posto, ho forse capito che più mi fossi intestardito a spiegargli il contrario, più questo mi avrebbe massacrato la testa con le sue teorie ericssoniane. E cosi decisi di ammettere “ hai proprio ragione” e rintanarmi nel mio albergo tanto carino per sfuggire a possibili altre congetture del tuttologo/psicologo/psichiatra Raffaele.
L’indomani mattina, ancora mezzo rincoglionito da mille esempi sui mercenari, e’ tempo di salutarsi e di continuare per le nostre strade. Con un guizzo improvviso Raffaele mi dice: “ Zio, lo sai che ho deciso che vengo a Beirut con te? Ma-ma è bella? E’ cara? Cosa c’e’ da vedere? Ma secondo te lo trovo un albergo da dieci dollari?”. Non ci potevo credere. Per un attimo ho pensato a scappare e darmi alla fuga ma alla fine, forse per puro spirito umanitario sono rimasto e mi sono ritrovato cosi su un taxi da ben 18 dollari a testa diretto verso Beirut.
Inutile dire che per una volta che posso permettermi di viaggiare senza galline e altri animali, cerco di approfittarne e non scendere a compromessi ne’ con Raffaele ne sul prezzo. In altre parole, se vuole venire con me e’ il benvenuto, sennò ci si può vedere a Beirut. Dopo un tentennamento di qualche istante dovuto ad un’allettante proposta di un autista siriano che proponeva un viaggio della stessa durata su un mini-van con altre 8 persone per 7 dollari, alla fine Raffaele si decide e parte con me per il paese dei cedri.
Il tempo di capire che gli altri passeggeri sono un iracheno e uno sciita originario di Tripoli e Raffaele sceglie, con un ottimo tempismo di cominciare a parlare – pardon – gridare, delle sue simpatie politiche filo israeliane. Tempo cinque minuti, l’autista s’incazza, l’iracheno s’infastidisce e lo sciita chiede di non gridare quando parla. Perfetto. Almeno nessuno comprende l’italiano, sennò non mi sarei meravigliato se ci avessero mollato da qualche parte tra Siria e Libano.
Da li a Beirut, la voce di Raffaele si fa più calma, e nonostante mi dica per almeno 5 volte “ zio, un’ultima domanda…” a 10 km da Beirut comincio con anticipo I saluti… a 500 metri dal punto in cui sarei dovuto scendere dalla macchina mi sento dire: “Chissà che non ci s’incontri da qualche altra parte… ah zio, lo sai dove voglio andare dopo?” no Raffaele, faccio, dimmi. “La Somalia”.
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