Siria e Armi chimiche. Obama nella sua stessa trappola

Israeli soldiers stand under a black netting close to the ceasefire line between Israel and Syria on the Golan Heights

(di Lorenzo Trombetta, Europa). Gli Stati Uniti non interveranno militarmente e in maniera diretta in Siria. Nonostante il chiasso mediatico che si leva periodicamente sul tema del presunto uso di armi chimiche da parte del regime o del variegato fronte dei ribelli, nella guerra siriana le armi convenzionali sono state finora assai più letali di quelle nascoste in arsenali detti proibiti.

Molto si è detto e scritto – anche ironicamente – sulla trappola retorica in cui si sono calati il presidente americano Barack Obama e i membri della sua squadra. Affermando che gli Stati Uniti sarebbero intervenuti solo in caso di utilizzo di armi chimiche, hanno di fatto dato il via alla corsa al casus belli da parte di tutti gli attori, interni ed esterni, che col passare del tempo hanno finito per svolgere un ruolo nella questione siriana.

Obama e i suoi pensavano di aver posto sufficientemente in alto l’asticella che avrebbe fatto scattare l’ora X. Tra l’altro, quando quel 20 agosto 2012 formulò per la prima volta in modo chiaro l’espressione «linea rossa» associata alle «armi chimiche» lo aveva fatto riferendosi al rischio che gli arsenali proibiti potessero cadere in mano a «persone malvagie».

Nell’arco degli ultimi 42 anni, gli Assad non sono mai stati realmente considerati da Washington come delle «persone malvagie». Piuttosto, nonostante il regime di Damasco sia stato inserito dal 1979 nella lista degli stati che proteggono e sostengono il «terrorismo» e sia legato da decenni a Mosca con un’alleanza strategico-militare di ferro, gli Usa e gli Assad sono andati più volte a braccetto, sopra e sotto il tavolo: il Libano e l’Iraq sin dalla metà degli anni Settanta sono stati i teatri dove questo rapporto – contraddittorio solo per chi ragiona in termini di principi e non di politica – si è espresso al meglio.

Quando Obama nell’agosto di un anno fa indicava le «persone malvagie» si riferiva senza dubbio ai gruppi allora emergenti di qaedisti. E non è escluso che si riferisse anche agli Hezbollah libanesi, anticipando le preoccupazioni espresse poi a più riprese dallo stato ebraico, l’alleato principe di Washington.

Ma in una Siria in cui ogni giorno si muore uccisi da un ampio ventaglio di armamenti che va dal pugnale al missile balistico Scud passando per colpi di mortaio e bombe a grappolo, è difficile limitare l’etichetta di «malvagi» solo ai fondamentalisti della Jabhat al Nusra.

Così in molti hanno tentato di alzare il livello di allerta fino a giungere all’asticella di Obama: «Abbiamo le prove dell’uso di armi chimiche». Come a dire: «Ecco, ora veniteci a salvare». In alcuni casi sono state forniti indizi, in altri solo «testimonianze».

In questo gioco si è tuffato a piedi uniti anche Bashar al Assad: forte della sua strategia mediatica consolidata di rigirare al mittente le accuse che mano a mano gli vengono rivolte, il regime ha messo l’osservatore esterno – che non può lavorare liberamente in Siria – nella posizione di non poter credere a nessuno e di doversi posizionare in maniera equidistante tra le due versioni.

Solo un’indagine veramente indipendente sul terreno e sui corpi delle vittime o su quelli delle persone ferite, sarebbe infatti in grado di rispondere con certezza ai “chi”, ai “dove”, ai “come” e ai “quando” a cui Obama non sa invece dare risposta. Ma Damasco nega l’accesso alla commissione d’inchiesta Onu (“come per l’Iraq nel 2003, vogliono trovare il pretesto per invaderci”) e propone invece che a condurre le indagini siano esperti russi.

Nell’attesa, in Siria si continua a morire. E i recenti tentennamenti di Obama nel rispondere a chi lo incalza sull’utilizzo vero o presunto di armi chimiche confermano che alla Casa Bianca non hanno interesse a entrare direttamente in guerra. Secondo diversi rapporti di stampa, gli Stati Uniti cercano invece di sostenere tramite i loro alleati regionali le frange “non malvagie” del fronte degli insorti, ma da come procedono le battaglie nei vari teatri siriani l’aiuto di Washington non sembra poi così determinante nell’alterare gli equilibri in campo e spingere Assad a cambiare i suoi calcoli. L’avanzare delle milizie lealiste e degli Hezbollah nella regione di Homs e gli atti di pulizia confessionale in corso nella regione costiera (massacri di Bayda e Baniyas, 2-3 maggio) indicano che a Damasco hanno fretta ma non che sono pronti a rivedere la propria strategia.

E i recentissimi raid aerei israeliani, che si inseriscono nella partita più ampia tra stato ebraico e repubblica islamica (limitare il trasferimento di armamenti agli Hezbollah) sono un’ulteriore prova che l’asse Usa-Israele non ha interesse a dare la spallata finale ad Assad. Al contrario, l’attacco del “nemico sionista” rafforza il fronte lealista, dentro e fuori la Siria e imbarazza invece le opposizioni siriane in esilio, da più parti indicate come pedine del “complotto universale” contro Damasco guidato proprio da Israele. Se lo Stato ebraico volesse far fuori Assad d’accordo con Washington, lo avrebbe già fatto nell’arco di una notte. Senza pensare di violare le linee rosse così improvvidamente tracciate sulla sabbia. (Europa Quotidiano, 7 maggio 2013).