(di Lorenzo Trombetta per Europa Quotidiano). Come un bimbo che infila i giochi sotto ai tavoli e al letto della sua stanza per mostrare ai genitori che in poco tempo ha fatto ordine in terra, così il regime siriano cerca in ogni modo di nascondere alle sparute squadre di osservatori arabi, da due giorni operativi tra Damasco e Homs, i segni della repressione in corso da dieci mesi.
Come ha denunciato Human Rights Watch (Hrw), citando guardie carcerarie e disertori dei servizi di sicurezza, le autorità hanno di recente trasferito centinaia, e forse migliaia, di detenuti politici in siti militari dove gli esperti della Lega araba non potranno entrare.
L’Organizzazione nazionale per i diritti umani in Siria (Ondus) ha affermato dal canto suo che, in previsione dell’arrivo degli osservatori arabi, il regime ha distribuito ai miliziani lealisti documenti di riconoscimento e divise da poliziotti. Come dimostrano inoltre numerosi video amatoriali pubblicati, il regime ha fatto dipingere di blu – il colore della polizia – i blindati e gli altri mezzi dell’esercito presenti nelle città. Da martedì mattina, poco prima dell’arrivo della squadra inter-araba a Homs, le autorità hanno poi nascosto gran parte dei carri armati negli orti fuori città.
La Lega per la difesa dei diritti umani in Siria ha riferito che per confondere gli inviati della Lega Araba, il regime ha dato ordine di cambiare le insegne stradali di alcune strade nelle città dove sono attesi gli osservatori e di stendere striscioni all’ingresso dei quartieri e, addirittura, all’ingresso di villaggi, con su scritto «Benvenuti a…» con un nome della località diverso da quello reale.
È accaduto nell’Hawran druso-cristiano, nel sud della Siria, confinante con la martoriata regione sunnita di Daraa: nel villaggio cristiano di Tabannuh, tranquillo feudo lealista, è stato issato un cartello con su scritto «Jassem», in riferimento alla località nei pressi di Daraa dove più volte si è abbattuta la scure della repressione. Ed è avvenuto a Homs, dove martedì, nel loro primo giorno di visita, i sette osservatori sono stati guidati da ufficiali del regime all’interno di Zahra, roccaforte alawita, mentre dai palazzi all’ingresso del rione era appeso uno striscione con su scritto «Bab Sbaa», nome del confinante quartiere in rivolta.
La missione degli osservatori inter-arabi appare d’altronde giorno dopo giorno una lancia senza punta. È in Siria fino al 18 gennaio per monitorare l’applicazione da parte del regime del piano arabo, che prevede, tra l’altro, il ritiro di tutte le forze armate dai centri urbani, il rilascio di tutti i prigionieri politici (oltre 16mila in carcere secondo la lista dettagliata degli attivisti) e l’apertura delle frontiere alla stampa araba e straniera.
Inizialmente il numero degli osservatori doveva aggirarsi attorno ai cinquecento membri, ma da lunedì scorso sono operativi sul terreno poco meno di cinquanta, e nei prossimi giorni (ma non si sa quando) ne sono attesi altri settantacinque. In tutto si arriverà a poco più di un centinaio di osservatori.
Altre perplessità riguardano la figura del generale sudanese Muhammad Dabi, 63 anni, capo della missione e indicato da più parti come un uomo forte del regime di Omar al Bashir, ricercato dalla giustizia internazionale con l’accusa di esser responsabile di crimini di guerra e contro l’umanità nella regione del Darfur.
Nel 1989, anno del golpe di Bashir, Dabi è nominato capo dei servizi di sicurezza militari. Dopo esser stato responsabile del controspionaggio e vice capo di stato maggiore per le operazioni militari, Dabi svolge un ruolo cruciale nella questione del Darfur, occupando tra l’altro la posizione di coordinatore tra Khartoum e la forza di pace congiunta Onu-Unione africana inviata nella regione occidentale.
Il segretario generale della Lega araba, Nabil al Arabi, ha definito il generale sudanese come «un militare di grande esperienza». Proprio il fatto che sia un uomo in divisa a condurre gli esperti arabi nel labirinto della Siria in rivolta ha suscitato perplessità tra gli attivisti e i difensori per i diritti umani.
«Evidentemente (Dabi) non ha il profilo più adatto per ricoprire il ruolo di osservatore umanitario », ha detto alla Reuters Jehanne Henry, responsabile delle ricerche sul Sudan per Hrw.
Nei giorni scorsi sulle pagine internet dell’attivismo siriano era circolata una lista di trecento nomi – in cui figurava quello di Dabi – di personaggi dell’establishment di Khartoum sospettati di esser coinvolti nei massacri del Darfur. In realtà, nessun fascicolo è aperto al Tribunale penale internazionale dell’Aja contro il capo degli osservatori arabi in Siria, ma chi conosce la questione sudanese non esclude che il generale sia comunque bene a conoscenza dei crimini commessi dal suo governo.
Eric Reeves, docente allo Smith College del Massachussetts e autore di ricerche sul Sudan, s’interroga: «Perché mai scegliere per questa missione qualcuno che fa parte di un esercito che è colpevole esattamente degli stessi tipi di crimini su cui si indaga in Siria? Credo – ha detto Reeves – che un generale sudanese sia l’ultima persona al mondo che possa giungere a queste conclusioni anche se le ha davanti agli occhi ».
Un’impressione confermata dalla scena ripresa da uno dei rari video amatoriali che mostrano i sette osservatori – incluso Dabi – circondati a Homs martedì scorso da un nugolo di residenti che li invitano a seguirli nel martoriato quartiere di Bab Amro. Gli inviati arabi non intendono proseguire a causa di spari di arma da fuoco esplosi da cecchini, e si rifiutano di rilasciare dichiarazioni con le videocamere accese. La sera però, invece di tornare a Damasco, rimangono in città. Tranne Dabi che torna nella capitale «per redarre il rapporto giornaliero da inviare al Cairo».
All’indomani – ieri – il generale sudanese fa ritorno nell’epicentro della rivolta e, assieme ai sei colleghi, tenta di entrare a Bab Amro. Nel loro convoglio c’è però una scorta dell’esercito governativo siriano. I residenti si rifiutano di far entrare le due auto e, dopo un’ora di negoziati, gli osservatori rinunciano alla scorta lealista e vengono accompagnati dentro dagli abitanti. Che li invitano a visitare le famiglie delle vittime della repressione e gli edifici bombardati dall’artiglieria governativa (video seguente).
«Non siamo ispettori, ma osservatori», ha detto Dabi intervistato ieri dal quotidiano panarabo al Hayat. «Ogni giorno inviamo al Cairo un rapporto di quello che abbiamo visto e abbiamo sentito, nella più totale trasparenza per non favorire nessuna parte in causa». (Europa Quotidiano, 29 dicembre 2011)
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