Siria-Libano, Dura pax sed pax

Tra Siria e Libano sono i poteri informali, non lo Stato, a evitare lo scontro tra sunniti e sciiti. Il caso del rapimento degli undici libanesi. Il ruolo di Hezbollah nel conflitto siriano. 

(di Lorenzo Trombetta, Limesonline). Sulla tavola mediorentale sembra ci siano tutti gli ingredienti per “lo scontro tra sunniti e sciiti” sullo sfondo della drammatica questione siriana. Eppure gli chef non intendono preparare nessun piatto esplosivo.

Lo dimostrano due fatti recenti, legati al sequestro in Siria nel mese di maggio di due gruppi di persone: 11 sciiti a nord di Aleppo da parte di ribelli sunniti siriani e una decina di poliziotti lealisti drusi della regione meridionale di Suwayda’, scambiati poi con decine di ribelli sunniti della limitrofa regione di Daraa.

Il secondo caso è ormai archiviato. È stato risolto – si apprende da fonti di stampalibanesi e panarabe – grazie all’intervento in gran segreto dei due noti leader drusi libanesi Walid Jumblat e Talal Arslan: entrambi vantano influenza sui rappresentanti drusi di Suwayda’, Arslan è un noto alleato del regime di Damasco e Jumblat ha contatti col fronte dei ribelli sunniti di Daraa.

Nel rapimento e nel contro-rapimento tra drusi e sunniti delle due regioni al confine con la Giordania si è rischiato – per stessa ammissione di Arslan e Jumblat – lo scoppio della fitna confessionale tra l’ortodossia e l’eterodossia islamica. Anche se può apparire forzato descrivere i drusi come parte della composita famiglia degli sciiti, per chi volesse proprio banalizzare, tra Daraa e Suwayda’ si è sfiorato “lo scontro tra sunniti e sciiti”.

I due feudatari drusi, Arslan e Jumblat – i cui seguaci si sono dati battaglia con armi da fuoco sul Monte Libano nel maggio 2008 e che all’ombra dei cedri rimangono acerrimi rivali politici – hanno svolto un ruolo di mediatori e “pacificatori”, richiamando le parti “alla calma” e convincendole a risolvere in modo incruento la vicenda.

Formalmente il regime siriano coincide con lo Stato e in questa contesa sarebbe dovuto intervenire. In realtà, Damasco non ha svolto quel ruolo di arbitro che per decenni ha invece avuto nel vicino Libano semplicemente perché nella vicenda di Daraa-Suwayada’ sosteneva una delle parti, i drusi lealisti (rappresentati nella mediazione da Arslan).

La stessa frontiera tra Libano e Siria si è rivelata nuovamente poca cosa di fronte alla forza dei poteri informali transnazionali, espressione di condivise appartenenze comunitarie, che da secoli esercitano l’autorità al di là delle divisioni prima amministrative (1516-1918) e poi statali (1920-oggi).

Una pax secolare che fa quasi dimenticare quanto sta avvenendo in Siria. E che allontana i terribili scenari di guerra totale dipinti da molti analisti e politici, dentro e fuori il Vicino Oriente: la fitna tra i sunniti, sostenuti dall’Occidente e dai paesi arabi del Golfo, e i gruppi della galassia sciita, appoggiati dall’Iran, dal regime di Damasco e dalla Russia.

Lo scoppio di un sanguinoso scontro a sfondo confessionale è stato evocato più volte di recente anche in occasione del primo rapimento, quello che ha coinvolto 11 uomini libanesi adulti tra la frontiera turca e Aleppo, in una regione a maggioranza sunnita dominata dai ribelli che si oppongono al regime alawita – altra minoranza formalmente parte dell’ecumene sciita – degli al-Assad.

Gli 11 facevano parte di un gruppo di oltre 50 “pellegrini” sciiti di ritorno in Libano da un viaggio in Iran. Il loro pullman viene fermato il 22 maggio nei pressi di Azaz, poco dopo aver valicato la frontiera turco-siriana in direzione di Aleppo.

All’indomani, gran parte del convoglio di pellegrini fa ritorno a casa con un volo Aleppo-Beirut messo a disposizione dal governo di Damasco, ma in mano ai rapitori rimangono 11 libanesi. Tra i quali, secondo alcune fonti di stampa allora non confermate, “ci sono membri di Hezbollah”, il movimento sciita libanese anti-israeliano sostenuto da Iran e Siria.

Torna così a salire la tensione in alcune zone di Beirut, dove pochi giorni prima due persone erano rimaste uccise in scontri a fuoco a sfondo confessionale scoppiati sempre sulla scia delle violenze legate alla Siria. Il leader di Hezbollah, il sayyidHasan Nasrallah, appare in televisione e invita i suoi seguaci alla calma. Un comunicato di Saad Hariri, ex premier e leader di riferimento di gran parte dei sunniti libanesi, fa altrettanto. Lo scontro sembra imminente, ma non succede nulla.

Né accade l’irreparabile alla notizia del massacro di Hula, commesso il 23 maggio nei pressi di Homs, in Siria, da uomini armati contro decine di famiglie di innocenti, tra cui molte donne e bambini. Le vittime appartengono a poche grandi famiglie, tutte sunnite, di uno degli epicentri della rivolta contro il regime. Attivisti e oppositori accusano le milizie irregolari – per lo più alawite – di Bashar al Assad. Il governo di Damasco punta invece il dito contro terroristi ed estremisti sunniti pagati dall’Arabia Saudita e dal Qatar, potenze sunnite del Golfo.

Passano poi ben nove giorni e sulla stampa libanese e panaraba esce ogni possibile ricostruzione del fatto. Si rincorrono notizie della liberazione – poi smentita – degli 11 e del loro arrivo in Turchia, che intanto si è offerta per mediare. Si ipotizzano scenari apocalittici di rappresaglie di Hezbollah contro i sunniti libanesi e siriani. Ma non succede ancora nulla.

Il 31 maggio, l’emittente panaraba Aljazeera diffonde un video messaggio dei rapitori che si firmano come i “Liberi di Aleppo”. Il breve filmato mostra i volti di due degli 11 rapiti. “Sono in buone condizioni di salute, stanno bene”, assicura il comunicato affidato all’emittente di proprietà dell’emiro del Qatar. “Si è deciso di trattenerli per varie ragioni. Tra queste, il fatto che cinque di loro sono ufficiali di Hezbollah”, affermano i sedicenti rapitori. Che giustificano il loro atto citando “il massacro di Hula” e “l’ultimo discorso provocatorio di Nasrallah”.

Gli autori della cattura pongono le loro condizioni, non per la liberazione bensì per l’inizio dei negoziati, “possibili solo se Nasrallah si scusa col popolo siriano per il suo ultimo discorso e se si schiera con la rivolta siriana in modo ufficiale e chiaro”. I “Liberi di Aleppo” assicurano inoltre di non avere “alcun problema con nessuna comunità confessionale (ta’yfa)”, ma che “Hezbollah è intervenuto a fianco della repressione contro il popolo siriano”.

Il video-messaggio è commentato da Aljazeera con una breve intervista ad Abu Abdallah al Halabi, portavoce del Consiglio rivoluzionario della regione di Aleppo, che riunisce gli attivisti anti-regime. Le sue parole sono interessanti. Confermando che gli 11 rapiti sono sciiti, Halabi si scusa più volte con i telespettatori “perché non vorremmo mai fare discorsi confessionali… ma la situazione ce lo impone oggi”.

Halabi prende le distanze dai “Liberi di Aleppo”, affermando che si tratta d’un gruppo distinto dal Consiglio rivoluzionario. L’attivista ha però contatti con i rapitori tanto da conoscerne le intenzioni: “Li trattengono per interrogarli. Durante i primi interrogatori è emerso che alcuni di loro hanno partecipato nelle azioni (di repressione)”.

Halabi assicura che membri di Hezbollah e militari iraniani combattono in Siria(“sono arrivate molte loro salme”). “Alcuni hanno partecipato al massacro di Houla”, afferma, aggiungendo che “il rapimento è un messaggio a Nasrallah e a chiunque entri nel paese e pensi di imporre il suo volere”. L’attivista ribadisce infine che “i rivoluzionari non ce l’hanno con gli alawiti o con gli sciiti in generale… ce l’abbiamo con gli sciiti e gli alawiti che si sono messi a massacrare il popolo siriano… perché l’organizzazione degli shabbiha (gli irregolari del regime, n.d.t.) per il 90% è composta da iraniani, da sciiti o da alawiti”.

Ma non succede nulla. Nemmeno dopo che i rapitori degli 11 “pellegrini” accusano Hezbollah di esser complice dei massacri in Siria. Il 1 giugno, proprio il leader del movimento sciita risponde ai “Liberi di Aleppo”. Nasrallah li esorta a liberare i “pellegrini” perché “sono civili innocenti”. “Se avete un problema con me ci sono molti modi per risolverlo”, replica il leader sciita, che però accusa i rapitori di aver implicitamente ammesso di avercela con gli sciiti in quanto comunità. “Se volete la guerra lo possiamo risolvere con la guerra… se volete la pace lo risolveremo con la pace”, ammonisce il leader di Hezbollah, lasciando così le porte aperte al negoziato. E a un accordo tra uomini d’onore.

Sebbene la retorica dei due schieramenti trasudi confessionalismo e intenzioni bellicose, anche nel caso degli 11 sciiti rapiti a nord di Aleppo la situazione non esplode. Ancor più importante, si continua a ragionare assai poco in termini di Stato. Sono invece i leader politico-confessionali, la cui influenza è transnazionale, a parlare e ad agire dietro le quinte o sul palcoscenico. I “Liberi di Aleppo” non si rivolgono al presidente del loro Stato, Bashar al Assad, bensì a Nasrallah, referente degli 11 rapiti. È lui che si deve scusare. La sua leadership non è messa in discussione come quella del ra’is di Damasco ma viene invece esaltata e riconosciuta.

Lo stesso leader sciita conduce le trattative a distanza, anche se nel suo ultimo discorso del 1 giugno, per ragioni di forma, esalta il ruolo delle istituzioni libanesi nella vicenda degli 11 correligionari. Il premier libanese Najib Miqati, recatosi a Istanbul per incontrare il premier turco Recep Erdoğan, e il presidente libanese Michel Suleiman, che è andato a Riyad per parlare con Re Abdallah, hanno però svolto un lavoro per conto terzi. Entrambi hanno certo tutto l’interesse a evitare il deterioramento della situazione in Libano, ma i negoziati intavolati da Beirut con turchi e sauditi – percepiti come i referenti internazionali dei ribelli sunniti siriani – sono condotti secondo termini e modalità indicate da Hezbollah. Il vero dominus della partita libanese.

Il potere informale continua così a lavorare alacremente dietro quello formale. Ed è grazie a questo non sempre espicito esercizio di autorità che si evita lo scontro finale. Con l’obiettivo di arrivare a una musalaha, la riconciliazione che, seppur temporanea, concede tempo alle parti così desiderose di rimanere a galla in un contesto regionale in profondo mutamento. Per mantenere la pax dei poteri transnazionali anche nel bel mezzo della tempesta siriana.

Post scriptum. Mentre si scrive, la vicenda è ancora irrisolta. E a Beirut nessuno quasi parla più degli 11 sciiti ancora ad Aleppo. (Limesonline, 5 giugno 2012).