(di Lorenzo Trombetta, Europa Quotidiano). Prendete qualche chilometro di confine, poroso ovviamente. Prendete due paesi “fratelli” ma per molti aspetti rivali, la Siria e il Libano. Aggiungete un pizzico delle onnipresenti differenze confessionali, in questo caso tra sunniti e alawiti. E portate a ebollizione il tutto nel bricco della rivolta siriana in corso.
Otterrete un incidente simile a quello avvenuto martedì 31 gennaio scorso alla frontiera – inesistente – tra il territorio in teoria controllato da Beirut e quello siriano, sempre più segnato dalla repressione del regime di Damasco contro gli epicentri delle proteste.
Membri della famiglia Abu Jabal, sunnita, di una sperduta località della catena montuosa dell’Antilibano, Masharia al Qaa, hanno rapito al valico frontaliero ben otto guardie di frontiera siriane, note come hajjana, “truppe cammellate” perché costituite in origine per pattugliare il confine desertico con l’Iraq.
Dopo qualche ora, sei degli otto militari sono stati rilasciati perché sunniti, mentre due alawiti sono ancora in mano ai loro rapitori. Questi non sono solo libanesi, ma sono anche siriani. Hanno la doppia cittadinanza, come gran parte degli abitanti di Masharia al Qaa, cinque case di mattoni e fango divise da una linea di confine mai demarcata sul terreno.
Forti della loro doppia nazionalità, i rapitori hanno portato i due alawiti a Nizariye, località in territorio siriano a pochi chilometri dal loro villaggio per metà in Libano. Li avrebbero rapiti – si leggeva il primo febbraio sul quotidiano di Beirut an Nahar – per vendicare l’uccisione, nell’ottobre scorso, a Masharia al Qaa, di uno dei membri della famiglia Abu Jabal (Ahmad Adel) e del rapimento di suo fratello da parte di soldati dell’esercito governativo di Damasco.
In questa vicenda, ancora non conclusa, si sovrappongono così almeno due diversi livelli: quello politico-confessionale (sunniti anti-regime siriano contro alawiti pro-regime siriano) e quello locale-familiare con un clan che organizza una vendetta dopo aver subito un’offesa. Su tutto emerge, come già evidenziato in altri episodi analoghi nella regione frontaliera di Wadi Khaled, la totale assenza delle istituzioni libanesi, siano esse le forze di polizia, l’esercito, le autorità civili locali o addirittura quelle nazionali.
La novità, introdotta dall’attuale contesto della Siria in rivolta, è che il territorio siriano confinante con questa parte di Libano dimenticato da Beirut è ormai nel caos più completo. Si tratta della zona sud-occidentale della regione di Homs, dominata dalla cittadina di Qusayr, una delle roccaforti della rivolta dove l’esercito governativo ha difficoltà a entrare e dove operano ormai da settimane membri dell’Esercito libero siriano, la piattaforma che riunisce disertori e civili volontari.
Nizariye, località dove i rapitori hanno condotto i due hajjana alawiti, fa parte del comune di Qusayr ma, ancor di più, viene indicata dai residenti locali come zona “liberata”, dove le truppe di Damasco hanno ormai difficoltà a penetrare. Da qui si comprende meglio la scelta degli Abu Jabal di rifugiarsi con i rapiti siriani nella Siria stessa, e non in Libano dove sarebbe sembrato più logico. Questo e altri incidenti, a quasi un anno dallo scoppio delle violenze in Siria, contribuiscono però anche a dimostrare che i rischi di una guerra civile siro-libanese – evocata da più parti, non solo a Beirut e a Damasco ma anche in Iran, Golfo, Europa e negli Stati Uniti – forse non sono poi così reali.
La tensione inter-confessionale è sì presente ma è diluita in micro contesti sociali e geografici, caratterizzati da tradizionali dinamiche clanico-familiari che servono da valvola di sfogo delle tensioni che periodicamente insistono sul territorio. Viste da lontano, le due recenti faide registratesi tra villaggi libanesi e siriani (quella di Masharia al Qaa e quella di Wadi Khaled tra il villaggio sunnita libanese di Muqaybla e la località alawita siriana di Mushayrafe) possono sembrare due momenti della più ampia lotta interconfessionale sunno-sciita, a sua volta riconducibile alla guerra fredda regionale in corso tra Iran e Arabia Saudita e collegata addirittura al braccio di ferro tra Stati Uniti e Russia per l’egemonia in Asia Centrale.
Eppure, sul terreno, il rapimento degli hajjana nell’alta valle della Beqaa non è percepito come un evento direttamente collegato alla tensione tra Muqayble e Mushayrafe. La rivolta in Siria, con le sue inevitabili ripercussioni sui preesistenti attriti tra comunità religiose, senza dubbio fa da sfondo ai singoli episodi la cui portata rimane però limitata nello spazio. Senza che, ad esempio, si crei un asse pan-sunnita anti-sciita tra Wadi Khaled e Masharia al Qaa.
E questo grazie anche alla radicata presenza delle tradizioni familiari: invece di organizzarsi in milizie sunnite pronte a combattere su larga scala i soldati alawiti di Damasco in nome di chissà quali lontani e astratti slogan politici («il popolo vuole…»), la famiglia Abu Jabal, offesa dall’uccisione di un suo “figlio”, ha chiamato a raccolta i suoi ragazzi e ha organizzato la vendetta. Senza chiamare in causa «il rispetto dei diritti umani», «la sovranità e l’indipendenza del Libano » come fanno i politici di Beirut.
Ma soprattutto, senza appoggiarsi a fittizie reti di solidarietà “sunnite” che sul terreno non esistono. E non esistono, ad esempio, perché la gente di Masharia al Qaa e la gente di Wadi Khaled sono divise da aspre montagne che separano le due realtà, abituate invece – ciascuna a suo modo anche a seconda delle contingenze storiche – a relazionarsi con i diversi più vicini, siano essi gli alawiti dall’altra parte del confine o gli Hezbollah sciiti del vicino villaggio libanese.
Dopo quasi un anno di proteste e repressione in Siria, in larga parte declinate secondo le profonde diffidenze comunitarie da decenni radicate nel paese, il delicato equilibrio libanese sembra dunque aver superato brillantemente l’esame: nonostante i ripetuti incidenti, nelle regioni frontaliere e in quelle più interne, nessuno scontro armato aperto sunno-sciita su larga scala è scoppiato al di qua dell’Antilibano. Paradossalmente, anche grazie alla capacità dei locali di risolvere le controversie secondo pratiche tradizionali, che trascendono questa o quella crisi politica (Europa Quotidiano, 4 febbraio 2011)
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