(di Lorenzo Trombetta). Mentre i civili siriani continuano a venir uccisi come mosche, nel panorama internazionale nessun attore, al di là della retorica, sembra in grado di mettere ordine nel caos di Damasco.
La discussione in seno al Consiglio di sicurezza dell’Onu prosegue ma è segnata dallo scontato veto russo. Intanto però è sempre più evidente che, dal punto di vista delle potenze regionali e mondiali, la partita siriana è solo una delle battaglie per l’egemonia in quello sterminato territorio che unisce il Mediterraneo orientale ai confini occidentali della Cina.
Da qui lo stallo nel braccio di ferro tra Mosca e le cancellerie americana, europee e dei paesi arabi rivali dell’Iran. Se cadono gli al Assad, la repubblica islamica e i suoi alleati libanesi (Hezbollah) e iracheni (in primis il premier Nuri al Maliki) perderebbero forza di fronte ai loro nemici, sostenuti da Washington direttamente (Israele) o indirettamente (sunniti iracheni, sauditi, giordani).
E in un clima di crescenti pressioni occidentali e di Israele sull’Iran, la fine del regime di Damasco potrebbe facilitare il compito di chi vuole un cambio al vertice anche a Teheran. Un effetto domino che spalancherebbe le porte centroasiatiche ai rivali di Mosca e Pechino, che si troverebbero a loro volta invasi in quello che da secoli considerano il loro grande cortile di casa. Uno scenario da incubo per russi e cinesi. I primi sono inoltre impegnati a breve nelle cruciali elezioni presidenziali.
Ma le scadenze elettorali non condizionano solo l’atteggiamento di Mosca. Anche Washington, nonostante i ripetuti proclami in nome della difesa dei diritti umani dei siriani, di fatto non ha mostrato finora nessun’intenzione di investire risorse in quello che si presenta come un nuovo pantano mediorentale.
L’Europa che non esiste – teoricamente più interessata dell’attore americano a evitare che la Siria si sfasci – alza la voce perché altro non può e non sa fare, mentre la Turchia mostra l’atteggiamento di chi sa di essere il miglior candidato a sporcarsi le mani (avviare l’intervento militare) e cerca dunque di rinviare quanto possibile quest’ipotesi.
La Lega araba spinta dai paesi del Golfo alleati di Washington, dopo aver concesso al regime siriano più di due mesi di tempo per continuare a uccidere impunemente il suo popolo, ha ormai alzato bandiera bianca, congelando la missione di osservatori e rimettendo la questione al Consiglio di sicurezza.
Non è un caso che da sabato scorso, giorno in cui dal Cairo hanno sospeso l’azione dei delegati arabi, la media giornaliera delle vittime della repressione si sia triplicata: da venti a sessanta uccisi, con picchi (lunedì scorso) di oltre cento morti. Da domenica le forze lealiste hanno sferrato massicce offensive nei sobborghi orientali di Damasco, da settimane controllati da nuclei della resistenza, formati da disertori e civili armati. E da ieri hanno puntato i cannoni dell’artiglieria contro Bab Amro, indomito quartiere di Homs in rivolta.
Con l’auspicio di convincere Mosca, gli Stati Uniti e i paesi europei hanno emendato la bozza della risoluzione, rendendola del tutto inoffensiva per il regime siriano: non si fa menzione di interventi militari; si esprime solo «preoccupazione » per la vendita di armi russe a Damasco; non si evoca la caduta del regime ma solo l’uscita di scena di al Assad, che dovrebbe cedere i poteri al suo vice; mentre un governo di unità nazionale sarebbe incaricato di avviare le riforme senza alcun’interferenza straniera; si mettono di fatto sullo stesso piano le violenze del regime e quelle della resistenza; né si prevede alcun reale meccanismo di pressione sugli attori coinvolti. (Europa Quotidiano, 1 febbraio 2012).
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