Siria, patrimonio archeologico in pericolo. Che fare?

(di Eva Zeidan*) Siamo archeologi siriani, chi in patria e chi all’estero per motivi di studio, preoccupati per la nostra storia e il nostro patrimonio che viene distrutto davanti ai nostri occhi.

Siamo a conoscenza dell’ottimo lavoro che sta compiendo la pagina Facebook  Le patrimoine archéologique syrien en danger, che si occupa di documentare e denunciare il danneggiamento e la distruzione dei siti storici e di tutto il nostro patrimonio storico-archeologico.

Osservando quanto avviene in Siria e sapendo cosa è già successo in Libano, Afghanistan e Iraq durante le guerre, abbiamo tuttavia deciso di fare qualcosa per la difesa del patrimonio che non è solo “nostro” ma di tutta l’umanità.

L’evento è stato creato da un’amica, che ci ha invitato a discutere l’argomento su Facebook in una pagina, in arabo, dal titolo “Assieme per proteggere il patrimonio archeologico dal saccheggio nei casi di mancanza di sicurezza”.

Abbiamo accettato l’invito con piacere, anche se almeno io ero poco ottimista. Il dialogo è iniziato partendo dalla questione se i nostri musei hanno tutti i beni documentati e archiviati oppure no. E siamo arrivati alla conclusione che una gran parte dei reperti presenti nei musei siriani non sono stati né documentati né archiviati.

Cosa possiamo fare? Alcuni hanno proposto di affidarci alle sovrintendenze archeologiche della Siria, ma altri hanno ricordato che la maggioranza di queste sono istruite dal regime a “rubare prima dei ladri”. Altri hanno avanzato l’idea di appoggiarci ai comitati di coordinamento locali e ai volontari sul terreno.

Un’idea votata da tutti, anche se qualcuno ha addirittura proposto di armare questi comitati, formando così delle guardie civiche a protezione dei musei. L’idea è stata bocciata dalla maggioranza: “cosi il regime usa questo pretesto per bombardare anche i musei!”, hanno detto.

Gli archeologi all’estero come me,  non potendo fornire un aiuto diretto, hanno proposto di divulgare in varie lingue l’attività di denuncia e documentazione delle violazioni. Qualcuno ha detto: “ma ancora credete all’estero? L’estero non ci ha aiutato per i nostri bambini, figuriamoci per le nostre rovine!”.

Gli  è stato risposto: “ma parleremo con gli intellettuali, non con i politici”. Poi è intervenuta un esperto del settore, ci ha raccontato che aveva già contattato l’Unesco, l’Icomos, l’Iccrom e l’Interpol, tutte strutture internazionali che a vario titolo possono sostenerci.

“Però non possono fare niente in questo momento!”, ci ha detto un esperto. “Ho detto che devono rendersi conto della propria responsabilità verso il patrimonio archeologico siriano”, ha aggiunto. Sono passati alcuni minuti senza che alcuno commentasse.

Uno ha detto: “Cioè… non possiamo fare niente?”.

L’esperto ha risposto: “nel caso dei conflitti armati, da fare c’è ben poco. Puoi fermare la macchina della distruzione nell’antico quartiere damasceno di Midan? Puoi salvare le strade dei Cactus (sabbar) nei giardini del Mezze (sempre a Damasco), che sono parte del patrimonio vivente della nostra Siria?”

“Quello che possiamo fare è una campagna di sensibilizzazione di tutti i siriani e un appello ai responsabili onesti delle sovrintendenze locali nel Paese”. Si è quindi deciso di scrivere un appello, stamparlo e farlo girare in tutta la Siria. Con la speranza che la nostra gente possa proteggere proteggere la nostra storia.

Mi sono venute  in mente le numerose missioni archeologiche straniere in Siria. Per anni hanno esaltato il ruolo della Siria nella storia mondiale ma ora non possono fare nulla. E mi è tornata alla mente la celebre frase di Andrè Parrot, l’archeologo francese d’inizio ‘900 e primo direttore del Louvre: “Ogni persona civile in questo mondo deve dire che ha due patrie, la propria e la Siria”.

* Eva Zeidan, studentessa di dottorato all’Università di Udine, è archeologa siriana.