Mi era stato detto che sarebbe stato una festa dimessa, silente e gravida di lutti: il mio sarto non aveva alcuna intenzione di festeggiare poiché suo figlio, da quasi due mesi, era scomparso in una delle carceri del paese. Invece…
Fu così che celebrai, a Damasco, il mio Id al-Adha (Festa del Sacrificio), che ha chiuso le intense giornate di pellegrinaggio dei fedeli musulmani ai luoghi santi della Mecca.
Circa una settimana fa ricevetti il gradito invito da parte di A., fratello maggiore del sarto, distinto signore la cui origini sono da ricercarsi nel cuore della città vecchia della città, per una colazione di Id, insieme a tutta la sua famiglia (ossia i figli e le figlie, con i rispettivi coniugi, e i nipoti).
I figli di A. mi avevano, però, avvertita della modestia dell’occasione: “Sai bene che J., nostro cugino, il figlio del sarto, è ancora in carcere. L’Id sarà solo per i bambini, sono loro ad averne bisogno. Ma noi continuiamo le manifestazioni nella speranza di un rilascio”.
Trascorro la mattina della festa da sola, percorrendo le vie della città vecchia, tentando di catturare immagini, oggi che penso di dare meno nell’occhio, dato che incontro altri turisti, dai tratti indiani o bengalesi, africani o che ipotizzo provenienti dalle ricche petrol-monarchie del Golfo.
11.00. Moschea degli Omayyadi. Avvolta nella mia abaye (sorta di tunica, con dei bottoni davanti, provvista di copricapo che ricevo all’ingresso – a pagamento – riservato a noi stranieri), rubo gli scatti alle donne sciite i cui chador neri svolazzano leggeri se il loro passo si affretta, ai bambini che giocano a fare capriole nei tappeti, ai vecchi avvolti nella loro kufiyya (tradizionale copricapo arabo di stoffa).
Esco dopo la preghiera, attesa da uno scarso numero di fedeli, e sgranocchiando un’ajwe (focaccia ripiena di dattero e ricoperta di semi di sesamo) mi dirigo verso il luogo dell’appuntamento.
12.30 M. mi viene a prendere con un largo macchinone bianco che data 1989: “Purtroppo mia madre non mi ha svegliato in tempo. Sarei voluto andare alla salat al-Id (la preghiera delle sette del mattino, specifica della festa) e poi alla muzahara (manifestazione)”.
“Kell am w entum bikhayr..kell sene w enti salme..Id mubarak!”, ci scambiamo gli auguri di rito.
La famiglia è numerosissima, le donne mi baciano calorosamente e mi stringono le mani (solamente loro però, mentre i maschi si limitano a portarsi la mano sul petto), i bambini sono incuriositi dalla mia presenza.
Il signor A. compare sulla soglia con una lunga ghellabiya (ampia tunica maschile, pronunciata all’egiziana) mi invita a sfilarmi le scarpe e, mentre slaccio le mie All Star vissute, vedo comparire il mio sarto, anche lui con la ghellabiya. Mi saluta con un ampio sorriso.
“Hanno liberato J. tre giorni fa!”.
Io, involontariamente penetrata nelle dinamiche di questa bella famiglia sunnita damascena, sono trascinata dal loro giubilo: arriva M., la moglie di A. e, mentre ci accomodiamo ai bordi della tavola imbandita, intona dei canti di festa, che celebrano la scarcerazione di J., che siede proprio davanti a me.
Una sua cugina, G., vive ad Harasta (nella periferia orientale, scossa da continui scontri tra manifestanti ed esercito) e mi racconta dei posti di blocco, del rumore degli spari, della paura di iscrivere suo figlio più piccolo all’asilo. Le figlie grandi, invece, frequentano un istituto superiore nei quartieri alti (geograficamente ed economicamente) di Damasco.
“Cosa mangiavi in carcere? Hai subito percosse? Sai se tuo zio (il fratello del sarto) è vivo? Cosa farai ora?”
J. risponde, e anche i bambini ascoltano, apprendono, e le sue frasi sono interrotte dagli slogan contro il regime intonati dai commensali.
“Cinquanta giorni in carcere. Cibo da militari, sufficiente per sopravvivere, ma non eri mai sazio. Le percosse? Ovvio, anche con l’elettricità. Ma dentro non si ha paura. Sai perché? Perché in carcere eravamo tanti, e tu non ti senti solo, ma con chi condivide la lotta. Le celle sono sovvraffolate: eravamo una quarantina, e dormivamo gli uni sugli altri. Ma meglio che in quella accanto: erano sessanta, e facevano i turni per dormire”.
Mangia di gusto: ful (fave), fatte (yoghurt con ceci e pane), formaggi, freschi o stagionati, accompagnati dai cetrioli e dai pomodori, le uova con le foglie di menta, i ravanelli rossi e il porro, makdus (melanzane ripiene di noci), labne (yoghurt filtrato), shanklish (formaggio di capra a volte piccante, oppure col timo selvatico, misto a pomodori, cipolle e olio d’oliva) , zeit w zaatar (olio e timo selvatico), le marmellate di rose e albicocche, halawa (crema dolce con i pistacchi).
“Ora non ci fermiamo. Non ho paura di tornare in carcere, continuamo”.
Il sarto, suo padre, è visibilmente commosso. Sua madre, definita umm al-batal (la madre dell’eroe), sorride.
La tv è sempre accesa, davanti al tè caldo, sintonizzata su al-Jazira e al-Arabiya: si commentano le notizie che riportano decine di vittime, dalla mattina di Id.
“Ha pregato a Raqqa (città nell’est della Siria), nella moschea an-Nur. Sino a lì è andato il nostro Presidente (ironico). La verità è che aveva solo paura di rimanere a Damasco”.
Ai bambini si continuano ad insegnare gli slogan: loro assorbono, captano, vivono gli umori di una rivoluzione che ha come risvolto della medaglia il fantasma della guerra civile.
“Vorrei comprare casa a Damasco, andar via da Harasta. Si ha paura di stare nelle stanze più esterne della casa, che danno sulla strada”, mi dice G., preoccupata.
A me vengono i mente i racconti dalla guerra civile di Beirut, i cecchini che miravano alle stanze più esterne dei palazzi.
Non ho bisogno di fare domande: tutta la giornata, sino a tarda sera, mentre si alternano gli ospiti e i parenti numerosissimi, in un carosello di auguri, è densa di racconti, pareri, emozioni rivelate.
“Le vittime sono limitate solo dal fatto che oggi esistono internet, i cellulari e le foto e i video vengono subito veicolati dal web. Se non ci fosse una tale copertura avrebbero usato [il regime al potere] bombardamenti aerei e massicci interventi dell’esercito. Conosci la sorte che è stata riservata ad Hama: 80.000 i morti!”, mi dice M. uno dei cugini, studente universitario, e mi conferma che la sua università è stata chiusa per un giorno, causa scontri tra studenti.
Frattanto J. continua a scherzare, si fa scherno dei suoi cinquanta giorni di carcere: “Mi avessi visto quando ero dentro! La barba incolta, le unghie lunghe… poi a pochi giorni dal rilascio, ti tagliano la barba e le unghie. Ed esci ordinato, pulito, con il medico che ha usato creme e unguenti per i lividi”.
Disumano, è ciò che penso. Una farsa, mentre continuo ad osservare gli alluci dei suoi piedi fasciati da cerotti.
Compaiono i maamul (dolci di festa ripieni di datteri, pistacchi o noci) e il caffè al cardamomo, rigorosamente amaro. Sono oppositori, tutti. Ma poco hanno di pericoloso.
Sono padri giovanissimi che giocano incantati dai neonati e dalle neonate; sono madri, ragazze o donne mature, tutte velate, eccetto la ragazzina tredicenne che chiede alla madre di farle delle trecce; sono nonni che insegnano i motti della rivolta ai nipoti; sono calorosi e appassionati; si alzano, alternandosi, uomini e donne, per andare a pregare nelle stanze vicine; scherzano con me, curiosi del mio passato o delle mie giornate nella capitale. La domanda se io sia “pro o contro” – reiterata nel Paese – è d’obbligo.
In tarda serata vado via. Ma prima il signor A. mi fa fare un bel giro della casa.
Affacciati al balcone, mentre mi mostra, orgoglioso, le sue piante mi dice: “Sulla sinistra compare il minareto di Gesù, della moschea Ommayade”… “Mentre all’estrema destra – gli faccio eco – vi è la moschea dal minareto altissimo e sottililissmo di bab Sharqiyy (la porta orientale) e la cupola verde”.
In mezzo i campanili delle chiese del quartiere cristiano di bab Tuma.
“Se la Nato ci bombardasse, sparirebbe tutto questo splendore”.
Il sole è tramontato da tanto. La giornata di Id pare aver attenuato lutti, preoccupazioni, dolore. Ma il fratello del mio sarto è ancora in carcere.
Infreddolita ed emozionata, sotto i grandi occhi azzurri del signor A. , mi allaccio le scarpe di tela verde, sgangherate da lunghe camminate. Non sono sua nipote, e non può toccarmi la mano, ma sua moglie mi accompagna alla porta con tre baci.
Porto a casa un invito per una visita ad Harasta, oramai entrata nei meandri di una famiglia all’opposizione.
Grazie per questo reportage. E’ un altro modo per raccontare la rivolta siriana. Dal di dentro.
All’interno di una delle tante famiglie coinvolte. Si sente la loro determinazione, il coraggio, la dignità e la fierezza.
I loro sforzi e le loro sofferenze non saranno vane.
Grazie.