Siria, un caffè col comandante Hakim

(di Rodolfo Calò* per ANSAmed). Comanda circa 400 uomini che hanno ucciso una quindicina di lealisti e ha il ventre segnato da cicatrici, eppure ha l’aria di un giovane commercialista con gli occhiali e fino a poco tempo fa aveva un negozio di vestiti a Idlib: è il comandante “Hakim”, uno dei tanti eroi di una guerra civile – quella siriana – che ha trasformato centinaia di semplici cittadini in combattenti.

In un bar di Antakya, capoluogo di una provincia meridionale turca al confine con la Siria, quella di Hatay. “Hakim”, o “Hakeem” in grafia anglofona, ha 29 anni e racconta che l’altro giorno era venuto “per visite mediche” ma sarebbe tornato “subito dopo” a guidare il suo gruppo dell’Esercito siriano libero (Esl), la fluida formazione di disertori che combatte contro le forze del regime.

La sua unità si chiama “Suleiman Muqatili” e ha “300 o 400 uomini sparsi in vari gruppi nella provincia di Idlib”, sostiene giustificando l’incertezza del numero con le continue adesioni di nuovi miliziani improvvisati e motivando lo sparpagliamento con una ragione tattica elementare: “se bombardano è meglio stare divisi e non farsi sorprendere tutti insieme”.

Le cicatrici che mostra sono il frutto di colpi sparati dalla polizia durante una manifestazione cui stava partecipando: tre mesi e tre operazioni chirurgiche in un ospedale di Antakya, poi il vicino campo profughi a Yayladagi, hanno fatto maturare la decisione di tornare in patria per combattere.

Quando viene nella città turca, che poi è l’Antiochia dei protocristiani e dei crociati, dorme nell’appartamento del fratello e quindi non è uno di quei miliziani che, secondo le accuse di Damasco, partono da campi profughi turchi per colpire in Siria.

È capo dell’unità da due mesi (“prima non potevo, non avevo più i muscoli addominali”) e sotto di lui la “Suleiman Muqatili” avrebbe ucciso 13 uomini delle forze di sicurezza siriane e dato fuoco a due edifici degli Shabiha, i miliziani fedeli al regime.

Dei suoi, nello stesso periodo, a cadere sono stati però 37, dice abbassando lo sguardo. “Abbiamo solo Kalashnikov”, sottolinea Hakim e, alla domanda su cosa avrebbero bisogno, non ha esitazioni: “fucili di precisione e Rpg”, il lanciagranate anticarro. “Se non ce li mandano dall’estero ci vorrà più tempo per vincere. Noi comunque non molliamo fin quando Assad non muore o se ne va”, aggiunge parlando ad un tavolo della terrazza vetrata che, per il numero di rifugiati che la frequentano, è considerata una sorta di “Rick’s Café” siriana del film Casablanca.

“Se ci danno le armi possiamo farcela, non ci servono i raid”, risponde il capo ribelle alla domanda se vorrebbe un intervento aereo della Nato stile Libia. “Il popolo è nel giusto”, sentenzia con la solennità di un leader militare nonostante indossi un giubbotto di velluto a coste marrone e sottolinei l’utilità di una “zona cuscinetto” pensando che “se la fanno, molti diserteranno perché troveranno un posto dove mettere al sicuro la famiglia”.

Lui la moglie non ce l’ha (“sono sposato con la Rivoluzione. Mi sposerò quando vinceremo”) e solo 129 dei suoi uomini sono disertori, tra cui “sette capitani”. “Combattiamo quando si deve e quando la situazione lo richiede”, dice vago e nega anche che la Turchia gli fornisca assistenza più di tanto: “ci danno solo tende, ospedali, cibo. Telefonini e satellitari ‘Inmarsat’ ce li dà solo qualcuno da fuori”. (ANSAmed).

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*Rodolfo Calò è corrispondente dell’ANSA dalla Turchia.