Una giornata tra i profughi siriani nella Beqaa

(di Roberto Fallini). L’eco dei rifugiati siriani arriva forte a Beirut, città abituata alle emergenze. La sua storia recente ne è stata piuttosto ricca, ma per la prima volta può assumere una posizione di distacco.

“La Siria è lontana, qui ci sono altri problemi. La benzina aumenta ogni giorno”, dice qualcuno. “Mica tanto lontana – precisano altri – da sempre i due Paesi si influenzano a vicenda”.

Da qualche settimana il numero di siriani per la strade di Beirut è aumentato, e già diverse volte è capitato che persone spaesate mi chiedessero indicazioni stradali. Provenienza: Aleppo, Homs e persino Qamishli (città curda della Siria al confine nord-orientale con la Turchia).

Quanti siano i rifugiati siriani in Libano non si sa con precisione, circa 21.000 affermano le diverse organizzazioni coinvolte nell’emergenza. Le cifre ufficiali dell’Alto commissariato Onu per i diritti umani (Unhcr, Acnur) parlano di 10.000 persone registrate.

La tranquilla cittadina di Arsal, appoggiata sulle dolci colline della Valle della Beqaa, sta vivendo giorni insolitamente concitati. Il sindaco è preoccupato per il vertiginoso aumento degli arrivi negli ultimi mesi.

“Solo a marzo e aprile il numero delle famiglie siriane giunte in città è quintuplicato, passando da 100 a 500. Facciamo quello che possiamo, ma non siamo attrezzati a dovere e le famiglie si arrangiano come possono per trovare una sistemazione. Alcuni occupano case in costruzione, dove manca ogni sorta di comodità, dall’acqua corrente all’elettricità; altri affittano case dai residenti locali, ma non sono certo per quanto tempo possano pagare ogni mese”.

Gestire circa 2.500 rifugiati per una povera cittadina di confine non è impresa da poco. “Ogni tre giorni spendiamo circa 1.000 dollari per produrre pane da distribuire”, continua il primo cittadino. Ci sembra un’esagerazione. Chiediamo di nuovo. “Sì, avete capito bene, 1.000 dollari ogni tre giorni!”, conferma. Prendiamo appunti in silenzio.

Diverse organizzazioni locali ed internazionali hanno fatto visita ad Arsal, e alcune anche già cominciato a distribuire materassi e coperte, medicinali e scatole di alimenti. I rifugiati hanno bisogno di tutto. Molti vengono trasportati in van dal villaggio di al Qaa, 45 km a nord di Arsal, sul confine nord-orientale del Libano, dove entrano nel paese, legalmente e non.

Fatima è arrivata in Siria tre settimane fa, con figlie e nipotini, nessuno di questi maggiore di otto anni. “Guardate dove siamo sistemate. Che Dio abbia pietà di noi”, dice mostrando le due stanze della casa in costruzione che hanno occupato. Letti, bagno e cucina sono un tutt’uno. Gli unici averi sono cinque-sei coperte ammassate in un angolo, un fornellino a gas con teiera e i vestiti che indossano.

“Siamo scappate di notte, lasciando tutto ciò che avevamo”.
“Come mai siete solo donne? – chiediamo – Dove sono gli uomini?”
“In Siria. Lavorano”, risponde velocemente.
Sembra strano continuino a lavorare nonostante la situazione. Non siamo convinti. “Hanno partecipato alle dimostrazioni? Stanno bene? Avete notizie regolarmente?”
“Lavorano”, ribadisce.

Per la democrazia eventualmente, ma non si può dire. Il Libano non è un Paese sicuro per i siriani dissidenti in fuga dal regime e Fatima è parecchio agitata. La ringraziamo per la sua disponibilità.

Il villaggio di al Qaa è solitamente tranquillo e silenzioso. Abbandonato fra le distese di campi coltivati, dista sette chilometri dalla frontiera siriana, nel nord-est del Libano. È qui che molti rifugiati giungono appena varcano il confine, spesso illegalmente.

Da sempre questa zona è considerata dai residenti in comune fra la Siria e il Libano, senza che il confine avesse molto peso nelle loro scelte di recarsi a Homs, piuttosto che a Tripoli e Baalbek, per un controllo medico o fare acquisti, spesso senza nemmeno scomodarsi di attraversare regolarmente i posti di controllo.

Ci fermiamo nei pressi di una casa in costruzione, per parlare con le famiglie siriane che la abitano. Vengono da Qseir e da un mese hanno abbandonato l’amata Siria.

“Un gruppo armato ha fatto visita ai nostri vicini, costringendo i loro uomini e ragazzi a combattere”, dice una donna.
“L’esercito siriano?”, domandiamo.
“Non lo so – continua – erano armati, però. Abbiamo avuto paura e siamo scappati”.

La casa occupata ha due piani e un tetto, nient’altro. I muri interni non sono completati, e per dividere le stanze, le nove famiglie hanno fissato delle tende. Niente riscaldamento o acqua corrente. “Di notte siamo fortunati se c’è la luna, altrimenti è completamente buio”, continua la donna che ci ha accolto.

Accetta di parlare con noi, fornisce un nome falso, Hoda, e maggiori dettagli della sua disavventura. Scoppia in lacrime a metà del racconto, quando la domanda sull’idea di un ritorno in Siria colpisce in fondo, dentro, ricordandole come la realtà di pace e semplicità in cui ha vissuto si sia dissolta.

Mi ritorna in mente il mio periodo a Damasco, un anno e mezzo tra il 2009 ed il 2010, quando le rivolte erano nell’immaginario di pochi critici e la gente dichiarava amore incondizionato verso il regime. Solo paura dei servizi segreti? Non credo. L’esasperazione presente in Egitto e Tunisia non si percepiva nelle città siriane, tantomeno nei villaggi, dove una vita semplice e ricca di valori ha fatto dimenticare per molto tempo la politica. Certo, i servizi segreti. Eppure il popolo stava bene in Siria. Poi, le prime dimostrazioni, gli spari, le divisioni etniche, la mancanza di sicurezza.

Hoda ritrova il sorriso, ci ringrazia per averle fatto visita. Ma noi non possiamo aiutarla. “Non importa – risponde – solo vedervi è stato importante”. Saluti e baci.

Dietro la casa di Hoda, visitiamo l’ultima famiglia. La tenda dove vivono è molto grande, ottanta metri quadrati, non male. “In quanti vivete qui dentro?”, chiediamo. “Circa novanta, compresi i bambini”, risponde il capofamiglia.

Novanta. Meno di un metro a persona.
L’ospitalità è comunque un rituale da onorare. Veniamo fatti accomodare sul tappeto in attesa del caffè. Abdallah, il capofamiglia, comincia a raccontare la loro storia quando un uomo appare all’ingresso della tenda, strillando, visibilmente contrariato della presenza di stranieri in visita. È Omar, fratello minore di Abdallah.

La discussione si accende fra i due anziani, finché l’orgoglio e la maggiore età di Abdallah hanno la meglio sulla resistenza del fratello. Verremo a sapere più tardi che una delle figlie di Omar necessita di trasfusioni sanguigne ogni due settimane, ma da almeno tre non ha potuto ottenere un trattamento. Per quattro volte nell’ultimo mese degli stranieri, appartenenti a diverse organizzazioni non-governative, si sono recati alla tenda di Omar e Abdallah, promettendo aiuto, ma nulla è cambiato.

Ritorna la calma, mentre viene servito il caffè. Forte. Arabo. Abdallah riprende il suo racconto. Parla con veemenza, invoca Dio e ad un certo punto si commuove. Non è siriano. Ha cittadinanza libanese, come tutta la sua famiglia. Ma allora per quale motivo..

“Il mio nome – risponde rapidamente – coincide con quello di una persona ricercata in Siria e lo stesso vale per i miei due figli. Viviamo aldilà del confine, in territorio siriano da sempre. Le nostre terre sono là”.

Sembra assurdo. “Se non cade il regime, non potremo più tornare in Siria, a casa nostra”, continua. Gli occhi tornano lucidi. Suscita un’emozione forte la vista di un anziano che si commuove. L’orgoglio arabo vieta il pianto. Gli uomini non piangono, un uomo anziano è saggio, ha risposte ad ogni domanda, sa affrontare ogni situazione.

La voce di Abdallah è rotta, gli occhi lucidi. Una debolezza di pochi istanti, mentre la moglie Manal lo soccorre completando la frase.
I bambini si affacciano curiosi nella tenda. “Ajanib” (stranieri), dice un piccolo più intraprendente. Sembrano davvero tanti i minori.

“Ma quanti sono?”, chiediamo. Confusione. Abdallah e la moglie si guardano e iniziano a contare. Quattro mani non sono sufficienti. Sembrano indecisi, provano con i nomi. “Circa venti, ma ho incluso solo quelli piccoli, lei, ad esempio è già grande”, conclude finalmente Manal indicando una bambina certamente non maggiore di dodici anni.

Facciamo una lista dei bisogni più immediati, forse potremo fornire un piccolo aiuto. Ringraziamo per l’ospitalità. “In sha’ allah tarjiʻu bi l-salama!” (Che possiate tornare a casa sani e salvi), è il nostro migliore augurio.

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 I nomi pubblicati in questo articolo sono di fantasia e non riconducibili a persone realmente esistenti.