L’altra “guerra” di uno studente siriano in Libano

Uno studente siriano trasferitosi a Beirut per completare gli studi universitari racconta i primi strappi della sua vita piena di preoccupazioni, la più difficile delle quali è diventata assicurarsi un minimo di rispetto in una comunità ospitante che non sostiene i rifugiati e non si fa carico della loro situazione. Al contrario, li carica di umiliazioni insostenibili.

(Da al Modon. Traduzione dall’arabo di Claudia Avolio). Ho concluso i miei primi studi nell’università di Aleppo. Appena laureato, sono iniziati i miei strenui tentativi di finire la magistrale, anzitutto per completare gli studi e acquisire una certa posizione sociale nel mio ambiente. In secondo luogo, per fuggire dallo spettro del servizio militare obbligatorio. È un’ambizione che ha causato l’emigrazione di molti giovani siriani che non prendono parte alla guerra, pur di salvarsi dal suo incubo.

Ho deciso di scegliere il Paese più vicino geograficamente e con le procedure più facili per essere accettato in quanto siriano. Infatti non mi veniva richiesto altro che la mia carta d’identità e una modesta somma di denaro. Dopo aver passato il confine, mi è apparso in tutta chiarezza un altro cammino di sofferenza non direttamente collegato alla guerra. È accaduto quando i membri della sicurezza libanese hanno iniziato a denigrare i giovani siriani dicendoci: “In fila, bastardi”, mentre stavamo già aspettando che ci venisse dato il visto d’entrata.

Un lavoro estenuante

Ma in Libano non si può studiare e basta: sono stato costretto a garantirmi un’entrata accettabile che mi aiuti a vivere e mi permetta di pagare l’università. Mi sono messo a cercare lavoro con la mia laurea in Letteratura, senza arrivare a un risultato soddisfacente. Gli basta sapere che sei siriano per rifiutarti, o per assumerti in condizioni di sfruttamento. Alla fine ho trovato lavoro in un supermercato di Beirut, ma è pur sempre un lavoro che non si addice alla mia laurea né alle mie aspirazioni.

Il lavoro è estenuante, ma mi sono adattato in fretta, dal momento che ho bisogno di pagare la retta dell’università privata che è relativamente alta anche per gli stessi studenti libanesi. Comincio la giornata alle cinque del mattino per prendere l’autobus che mi porta da Dahiye, la periferia meridionale di Beirut dove abito, al mio luogo di lavoro a Ra’s Beirut, dove arrivo verso le sette e un quarto.

Diritti rubati

A lavoro – e ormai si sanno bene le ragioni – la mia nazionalità è diventata una scusa per chiamarmi “quello della Daesh”, per una presa in giro dall’origine chiara. Malgrado tutto, sono riuscito ad adattarmi ai miei colleghi e a stringere amicizia con qualcuno. E mi sembra che i miei studi e il fatto di svolgere una mansione inferiore alla loro mi faccia essere in qualche modo apprezzato.

Col tempo mi sono diventate chiare molte cose. Per esempio il fatto che l’impiegato libanese che non ha una laurea riceve il doppio del mio compenso, oltre alla previdenza e all’assicurazione sanitaria. Anzi, una delle ultime decisioni della cooperativa – decisione da cui sono stato escluso – ha concesso agli impiegati libanesi assicurazioni sanitarie per sostenerli nei trattamenti presso qualsiasi medico indicato dall’azienda.

In realtà, sono ancora soltanto un lavoratore alla giornata che non ha ferie come i libanesi nei giorni festivi. Perché, semplicemente, me le tratterrebbero dallo stipendio. Così, ho iniziato a darmi da fare per chiedere un piccolo aumento che risponda alle mie poche necessità, non di più. Ma questo è stato accolto da parte dell’amministrazione solo con promesse. Quando ho insistito mi hanno detto: “Lavori bene, ma se non ti piace, te ne puoi andare”.

Pensando all’Europa

Sembra che i miei studi non significhino nulla per loro. Presumo che, secondo loro, dovrei essere soddisfatto della mia situazione visto che conosco la condizione attuale dei siriani in Libano. E a quanto ne so, non troverò un altro lavoro adatto a me. Ma mi sono già iscritto ai corsi della magistrale dilazionando il pagamento delle rette in tre anni, mentre credo di completare gli studi in due. Devo comunque assicurare il pagamento della retta ogni semestre, in quanto l’amministrazione universitaria mi è venuta incontro solo estendendo il periodo di pagamento, senza agevolazioni.

Vedo i giovani siriani che lavorano nella mia stessa azienda ma al reparto di consegna degli ordini. Non sono pagati, ma ricevono il loro “stipendio” – se così si può chiamare – dai clienti: mille, duemila lire, o niente a volte. E nonostante questo, si trovavano ad affrontare certi responsabili nella cooperativa che rifiutano la presenza di siriani nell’azienda e cercano di sostituirli con lavoratori del Bangladesh. Questi sono gli scambi tra i dipendenti, mentre i siriani, quando mi unisco a loro, non pensano e non parlano d’altro che di emigrare in Europa e viverci con dignità.

L’ultima umiliazione

Mentre torno a casa, l’autobus si ferma al checkpoint all’entrata di Dahiye. Esce il razzista di turno e fa: “Tutti i siriani tirino fuori la carta d’identità”. La volta prima, era il periodo dell’Ashura, ci hanno detto: “Tutti i siriani scendano a terra”. Così ti senti un terrorista. Ho iniziato a pensare di camminare a piedi per un’ora intera per evitare il checkpoint. Non perché sono un terrorista o perché i miei documenti non vanno bene. Ma perché così, almeno, non sento di perdere la mia umanità.