(di Jessica Chillemi).“Non so chi abbia lanciato la bomba quel giorno, spari e fumo provenivano da ogni parte. Le fazioni avversarie erano in aperta lotta tra loro, mentre civili correvano per strada in cerca di un rifugio. Il caos era ovunque. Mi è stato chiesto più volte: chi è stato il responsabile dell’attacco? E io ho risposto: lo sono tutti. Una bomba è caduta proprio accanto a noi e ho perso mia figlia tra le braccia. Sono tutti responsabili di questa tragedia. Vivere in Siria era diventato impossibile. Siamo stati costretti a scappare”. Munira pronuncia queste parole prima che le lacrime inizino a segnarle il volto.
Il numero di profughi siriani oggi ha superato i quattro milioni, la maggior parte dei quali ha trovato rifugio nei Paesi confinanti. In Libano, in particolare, migliaia di profughi siriani e siro-palestinesi hanno scelto come destinazione temporanea alcuni dei campi palestinesi, dove il prezzo della vita e delle abitazioni è notevolmente più basso rispetto al resto del Paese. Le statistiche ufficiali dell’Onu affermano che ‘Ayn al Hilwa, il campo palestinese alla periferia di Sidone (40 km a sud di Beirut) e il più affollato del Libano, ha ricevuto solo negli ultimi cinque mesi più di duemila rifugiati.
Molte persone, come Munira, sono vittima di una guerra alla quale dicono di non appartenere e di non aver mai appartenuto. Affermano di non avere alcun interesse a mettere a rischio la propria vita in nome di un regime dinastico o di un Esercito libero (Esl), entrambe entità percepite come responsabili della tragedia in corso.
Ai primi di giugno, in compagnia di Suad, una social worker palestinese del campo, ho visitato diverse famiglie rifugiate siro-palestinesi. Tra i casi che hanno più destato la mia attenzione vi è una famiglia composta da ventiquattro persone, proveniente dal campo palestinese di Sbayne, vicino Damasco.
Da poco sono giunti ad ‘Ayn al Hilwa. La stradina in cui sorge la loro costruzione presenta segni di estrema povertà e abbandono: bambini e donne scalze, vestiti logori. Una fitta ragnatela di fili elettrici sospesa a pochi metri da terra che non permette alla luce del sole di raggiungere il suolo. Abitazioni decadenti con le mura decorate da decine di fori di proiettile e pezzi di stoffa sudici, che nella maggior parte dei casi sostituiscono porte e finestre. Un odore aspro e invadente di carbone bruciato e spazzatura pervade i viottoli vicini e arriva fino a noi.
Ci fermiamo di fronte a un palazzo di tre piani, privo di porta. Entriamo. La famiglia, composta da due fratelli con le rispettive mogli e figli, vive al piano terra. Ci accomodiamo in una stanza. L’unica. Il buio pervade la stanza, non riesco a focalizzare volti né figure e la cosa mi disorienta un po’. Vengo poi informata che L’elettricità qui va via per almeno quattro ore al giorno.
Dopo qualche minuto, la mia vista si abitua alla mancanza di luce e inizio a distinguere volti, persone, cose. Noto subito le ristrette dimensioni della stanza, e trovo difficoltà a immaginare come ogni notte vi possano dormire ventiquattro persone, sebbene molti di loro siano bambini. Il pavimento è ricoperto da tappeti e materassi, sui quali al momento della nostra visita si trovano sedute almeno quindici persone: uomini e donne dai venti ai trent’anni e sei bambini. Alcuni dei piccoli sono appisolati mentre altri, indifferenti alla nostra presenza, restano intenti a giocare con lanterne e mattoni rotti.
Il capo famiglia, nonché il più anziano tra i presenti, si chiama Mahmud Rajida. E’ un uomo di mezza età, padre di sette figli e ora responsabile anche della famiglia del fratello, rimasto in Siria. Mentre una bambina attraversa la stanza e ci porge due succhi di mango, Mahmud è il primo a prendere la parola e a raccontarci la disavventura che li ha portati fino a lì. Il loro arrivo nel campo risale ai primi di aprile, dopo un’interna giornata di viaggio in un pulmino che, a causa dei numerosi controlli e posti di blocco, ha impiegato dodici ore per attraversare il confine.
Mahmud spiega la loro decisione di lasciare la Siria per cercare rifugio in Libano. E racconta che negli ultimi mesi il campo di Sbayne era diventato una base dei ribelli e si era poi trasformato in un aperto campo di battaglia tra Esl e forze del regime. Mahmud prosegue il racconto dei violenti attacchi armati e dei bombardamenti dell’ultimo mese prima della loro partenza. A queste parole il volto di sua moglie Munira,, seduta al suo fianco, si incupisce.
Ha una mano fasciata con un supporto in gesso molto grezzo. La donna racconta di esser stata colpita dalle schegge di una bomba sganciata da un aereo del regime durante il suo ultimo mese al campo. Dovrebbe essere operata al braccio ma – come dice Mahmud – non c’è stato finora tempo, modo né soprattutto denaro. Le condizioni della ferita di Munira peggiorano di giorno in giorno.
“Siamo fuggiti per paura. I pericoli giornalieri continuavano ad aumentare ed era diventato impossibile persino comprare alimenti o far andare i bambini a scuola. Non abbiamo avuto scelta”, afferma la donna, il cui braccio è ora quasi del tutto paralizzato. Racconta poi di quel fatale bombardamento.
“Era mattina. Uscii di casa alle dieci con la mia figlia più piccola di tredici anni, Huda, per andare al forno. La fila quel giorno era particolarmente lunga e il fornaio poteva consegnare al massimo sei fogli di pane a famiglia. Ma il pane appena sfornato andava lasciato al sole perché si seccasse un po’. Dopo esser uscite dal forno, Huda mi chiese di tornare a casa, ma io mi fermai sul marciapiede e stesi il pane al sole. Mentre sistemavo i fogli di pane… udii il boato. E poi il caos”.
Munira scoppia a piangere e nella stanza è già silenzio. “Afferrai Huda ma solo per un braccio. Subito dopo un’altra bomba cadde proprio sul forno dove avevamo appena comprato il pane. Huda fu investita dalle schegge, e così il braccio sinistro con cui la tenevo stretta. Huda è morta”. Il pianto si mischia alle parole, sempre più incomprensibili.
Poi alza lo sguardo, afferra dalla borsa una foto di Huda e dice: “Io non so chi sia stato il colpevole. Non lo posso sapere. Alcune persone al mio fianco mi dissero che la bomba era stata lanciata da un aereo del regime, e che si era trattato di un errore. Poi si udirono spari da ogni lato. Non so e non mi interessa sapere chi pilotasse l’aereo. Quel giorno non ci fu un solo colpevole. I colpevoli furono tutti. Tutti coloro che hanno dato inizio e sono tutt’ora coinvolti in questa guerra insensata, portandola avanti con armi e violenza. Spari e morti si contano da entrambe le parti. E Huda è una di loro”.
Mahmud raccoglie nella sua mano quella di Munira. E afferma con rassegnazione che loro adesso non chiedono né vogliono nulla. Sostiene che dopo i troppi dinieghi e gli aiuti minimi ricevuti dalle varie organizzazioni responsabili del supporto ai profughi, sono stanchi di continuare a chiedere. Poi, ci mostra i documenti e afferma che la loro richiesta è di essere registrato con la famiglia nella lista di rifugiati con casi di emergenza.
Mahmud è malato ai reni da tempo e questo gli impedisce di effettuare lavori fisici. In Siria lavorava in ufficio per una compagnia di costruzioni. Ma da quando è arrivato nel campo libanese ha mantenuto lo stato di disoccupato. Gli unici a lavorare della famiglia sono due dei suoi figli, che ora sono muratori. Il loro stipendio è minimo. L’affitto della stanza dove abitano tutti assieme è di 150 dollari al mese. Ma sono tanti e riescono a stento a raccogliere la somma richiesta.
Oltre che dalle gravi condizioni economiche in cui vivono, l’animo di queste persone è dilaniato da martellanti ricordi di guerra e da una crescente paura per ciò che li attende in futuro. I bambini soffrono frequentemente di crisi di panico. Si rifiutano di uscire da casa e ogni volta che sentono un forte rumore che possa minimamente assomigliare a quello di un’esplosione, corrono a nascondersi negli angoli della casa o dietro il mobile, coprendosi le orecchie.
Famiglie come quella di Mahmud e Munira rappresentano purtroppo casi non rari all’interno del campo, un luogo caotico, dalla povertà estrema e con frequenti scontri armati tra fazioni rivali. “Quello che desideriamo è una vita semplice”, riprende Munira. “Senza paura e con le abitudini quotidiane che avevamo una volta. Vorremmo poter dormire la notte senza il terrore costante che, da un momento all’altro, possa esserci un’esplosione o possa cadere una bomba sulle nostre teste”. (9 giugno 2013).
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