Wadi Khaled, il difficile percorso degli aiuti umanitari

(di Lorenzo Trombetta) Non sembrano moltissimi ma sono ovunque: i profughi siriani fuggiti dalla regione di Homs e che da circa due anni affollano la provincia libanese di Wadi Khaled, all’estremità nord-orientale del Paese dei Cedri, denunciano una pessima distribuzione degli aiuti umanitari a loro destinati.

Chi lavora nelle organizzazioni non governative (Ong) sottolinea invece le difficoltà di gestire gli interventi in un territorio ”sempre più saturo”. Nel Wadi, striscia di Libano che si insinua in Siria e che dista poche decine di chilometri dalla martoriata Homs, non ci sono campi profughi ufficiali.

”Beirut non li ha mai accettati finora. E non solo qui ma in tutto il Paese”, afferma all’Ansa un responsabile di una Ong europea, che preferisce rimanere anonimo. In un Libano che conta circa quattro milioni di abitanti e che da decenni ospita ufficialmente 400mila profughi palestinesi, il timore bipartisan delle autorità è che l’apertura di agglomerati di rifugiati possa dar vita a frizioni inter-comunitarie in regioni dove la tensione è già altissima. Secondo il governo, sono circa 900mila i ”profughi” siriani in Libano.

”Nel Wadi arrivano a volte anche duemila famiglie al giorno”, afferma il cooperante della Ong europea. Tra i rifugiati, nel villaggio di Mashta Hasan, si riuniscono alcuni abitanti di Talkalakh, cittadina siriana oltre confine, nota per il commercio transfrontaliero (”non chiamatelo contrabbando!”).

Questi capi-famiglia se la prendono non solo contro i politici libanesi (”che hanno bisogno dei voti della gente del Wadi”) ma anche contro alcuni siriani, anche loro di Talkalakh, che fanno da tramite tra i loro concittadini e chi distribuisce gli aiuti. ”È capitato che un camion pieno di scatoloni di viveri e medicinali è stato svuotato in parte in garage di libanesi con la connivenza di altri siriani che ricevono una percentuale dei guadagni della rivendita del materiale”, afferma Abu Musaab, che vive con moglie e figli in una casa a Hishe.

La circostanza raccontata da Abu Musaab non è verificabile ma è riferita da altri rifugiati siriani. ”Spesso arriva un camion con al seguito troupe televisive e fotografi”, afferma Abu Adel. ”I volontari scaricano qualche scatolone, fanno le foto con qualche bambino e donna e poi se ne vanno. E non sappiamo dove finisce il resto del carico”.

Episodi smentiti dai cooperanti che affermano invece di fare il possibile per distribuire gli aiuti nel modo più equo e capillare. ”Le tensioni nel Wadi sono sempre più forti. Specialmente tra siriani e libanesi a causa del mercato del lavoro”, afferma l’operatore dell’Ong. Per decenni, Wadi Khaled è stata di fatto dimenticata dalle autorità di Beirut. E la sua gente è sopravvissuta grazie al commercio illegale di ogni tipo di merce con la vicina Siria, in quel tratto separata dal Libano solo da un modesto corso d’acqua guadabile con estrema facilità.

”Ma adesso il confine è sigillato. Gli abitanti di Wadi non hanno più risorse e per di più si sentono invasi dai siriani”, afferma il cooperante. A cui risponde, indirettamente, Abu Musaab: ”Siamo stati la loro fortuna invece… Molte Ong restaurano le case dei libanesi o, addirittura, gliene costruiscono di nuove a patto che essi ospitino noi profughi ma non certo gratuitamente. Gli affitti vanno dai 100 ai 700 dollari”, sostiene Abu Musaab, laureato in Legge a Damasco, ma ora costretto a vivere come ”decoratore di interni” e ad accettare di lavorare ”anche a un quarto del compenso di mercato”.

Alcune Ong hanno scelto di farsi carico del costo degli affitti e hanno imposto che questi siano calmierati. Altre lasciano l’onere dell’affitto al rifugiato, ma lo aiutano distribuendo tagliandi per acquistare cibo e beni di prima necessità. ”Ciascun coupon – riprende Abu Adel – è del valore di 46mila lire libanesi (23 euro circa). Io li rivendo in modo da pagare l’affitto”.

E come mangia? ”Per quello mi aiutano quegli amici e parenti che in quel mese riescono a guadagnare più di me”. Abu Musaab riceve mensilmente delle provviste alimentari. ”Ma metà del contenuto lo rivendo. E compro altro. Negli scatoloni trovi sempre lenticchie, riso e burghol (grano saraceno) mica siamo galline. Abbiamo bisogno anche di verdura sono quasi due anni che siamo qui e chissà per quanto tempo ancora dovremo rimanerci”. (Ansa, 22 marzo 2013)