(di Lorenzo Trombetta, per Europa Quotidiano) Dai finestrini del minibus posso guardare da vicino la scena senza dare troppo nell’occhio. I soldati libanesi in divisa alla fine del loro turno giornaliero entrano nel prefabbricato bianco. Dopo meno di dieci minuti escono, in abiti civili, e si dirigono con una busta di plastica in mano o uno zaino in spalla verso la sbarra bianco-rossa del valico frontaliero. La superano e si ritrovano in Siria.
«Hanno la doppia nazionalità», mi dice Abu Nahed, autista dei mezzi pubblici che ogni giorno collegano Beirut con Wadi Khaled, la remota regione libanese al confine con la provincia siriana di Homs, martoriata dalla repressione militare e poliziesca in corso da dieci mesi e che secondo i bilanci documentati degli attivisti ha causato l’uccisione di oltre seimila persone, l’arresto di decine di migliaia di altre e la fuga in Libano, Turchia e Giordania di oltre ventimila civili.
«Di giorno sono soldati libanesi, di notte sono siriani e alcuni di loro imbracciano le armi nelle milizie alawite fedeli al regime (di Damasco)», spiega Nahed, figlio maggiore dell’autista del van. Abu Nahed e i suoi due figli sono in pausa, tra un viaggio e un altro, in attesa di nuovi clienti. «Sono tutti alawiti», aggiunge Abu Nahed, riferendosi alla minoranza sciita a cui appartengono anche la famiglia presidenziale degli al Assad e i clan a essa alleati, al potere da quasi mezzo secolo. Secondo l’autista del minibus, anche i soldati libanesi con nazionalità siriana sono alawiti: «Di notte pattugliano le strade dei loro villaggi come shabbiha», gli squadroni della morte del regime di Damasco.
Impossibile provare, rimanendo qui da questo lato del confine, la grave accusa pronunciata da Abu Nahed e dai suoi figli. Rimane comunque singolare il fatto che degli uomini che prestano il giuramento di difendere i confini della nazione libanese risiedano nel villaggio siriano oltre frontiera e abbiano la nazionalità del paese che più volte ha violato la sovranità del Libano.
Il punto di osservazione all’interno del pulmino consente di notare un altro interessante fenomeno di frontiera: a gruppi di quattro-cinque persone, nell’arco di appena un quarto d’ora, circa venti siriani – uomini e donne, adulti e ragazzi – attraversano il confine passando per un sentiero tra gli alberi, parallelo alla strada asfaltata del valico ufficiale di Buqaiyya verso il villaggio siriano di Naisiyya. «Anche quelli sono alawiti. Loro passano così, indisturbati, perché tanto nessuno li ferma. E non pagano neppure la tassa di entrata o di uscita», spiega ancora Abu Nahed.
Ma come si fa a capire che sono alawiti, quelle persone che in fila indiana camminano tranquille con i loro sacchi di plastica a due passi dagli sguardi in teoria vigili dei soldati libanesi e siriani? «Qui tutti conoscono tutti. Sono visi conosciuti», rispondono all’unisono nel van padre e due figli, tutti sunniti di Wadi Khaled. E se le guardie non dovessero riconoscerli? «Lo dicono: “Sono alawita”. Oppure ricordano al militare il nome della famiglia a cui appartengono».
Sono tentato dal fingermi alawita anch’io, con una busta di plastica in mano e di provare ad attraversare il confine lungo il sentiero tra gli alberi, ma desisto. Esco dal van. Fuori continua a piovere. E mi chiedo quanto di esagerato e quanto di vero ci sia nelle parole dei miei interlocutori, che non nascondono il loro astio per gli alawiti siriani. Appena tre settimane fa tre giovani del Wadi, due siriani di Hit e un libanese di Muqayble, sono stati uccisi dagli shabbiha con la complicità dell’esercito siriano in pieno territorio libanese. Il racconto di quanto accaduto il 27 dicembre scorso mi è riferito da Rami Khazzal, sindaco di Muqayble, che mi riceve nella sua casa a due passi dal luogo dell’“agguato”.
L’assassinio è avvenuto poco dopo le 20, quando il buio era già calato nella valle. Ahmad e Kasser Zeid – fratelli di 31 e 34 anni, rifugiati di Hit, villaggio siriano dall’altra parte del Wadi – ricevono una telefonata da un conoscente di Mushayrafe, località anch’essa siriana, oltre il Grande Fiume (an-Nahr al-Kabir) che in questo tratto costituisce la frontiera naturale tra Libano e Siria. Si devono recare dall’altra parte a prendere della merce e chiedono di essere accompagnati in auto da un loro conoscente, Maher Abu Zayd.
Una volta scesi in una scarpata verso il guado del fiume, sulla sponda libanese, si trovano di fronte una schiera di giovani armati. Maher fa marcia indietro, l’auto sbatte su un muretto e viene crivellata di colpi, mentre a poche decine di metri, da un posto di blocco dell’esercito siriano, avanzato per l’occasione in pieno territorio libanese, i militari di Damasco sparano in aria per coprire il rumore dei fucili automatici degli shabbiha e intimorire chiunque tenti di avvicinarsi al luogo dell’attentato.
Il sindaco di Muqayble mi conduce personalmente lungo la scarpata: sono passati troppi giorni dall’accaduto e la pioggia si è abbattuta incessantemente sul fango. Il muro sbrecciato è l’unica traccia. Altri racconti – forniti dalla tv libanese al Jadid, vicina al regime siriano – affermano invece che i tre giovani stavano trasportando armi in territorio siriano ma che l’auto è stata intercettata dall’esercito di Damasco.
Di fatto però, da quella sera prima di Capodanno, tutti gli abitanti di Mushayrafe non possono recarsi nel Wadi, in Libano. Molti di loro, alawiti ma anche sunniti e cristiani, lavorano come impiegati negli uffici postali dell’Akkar, altri sono insegnanti o bidelli delle scuole libanesi, altri ancora hanno un’officina o un negozio di barbiere a Muqayble. Sono bloccati nel loro villaggio perché dal lato libanese non si passa: ronde di membri della famiglia Zeid, a cui appartenevano due degli uccisi, pattugliano notte e giorno i valichi illegali lungo il Grande Fiume.
«Qui le tradizioni tribali sono ancora la prima fonte del diritto», commenta Khazzal, il sindaco di Muqayble. «Abbiamo raccolto, grazie ai nostri nostri contatti a Mushayrafe, i nomi di undici dei quattordici autori dell’agguato. Erano tutti alawiti tranne uno, sunnita. Sono membri delle famiglie Abdo, Tartusi, Sallum e Aziz», aggiunge con sicurezza il sindaco, che lamenta «la totale assenza delle autorità libanesi. Siamo dimenticati. L’esercito libanese è dispiegato al confine solo formalmente, e i poliziotti rimangono rinchiusi nel loro commissariato a chilometri di distanza da qui».
A Wadi Khaled gli episodi di sconfinamenti delle forze militari siriane non sono una novità. Ma con l’avvio della repressione nella regione di Homs la tensione è alle stelle. Sin dal maggio scorso sono arrivate migliaia di profughi. E la notte il confine è attraversato dagli spari dei cecchini siriani, che si conficcano nei muri delle abitazioni libanesi. (Per Europa Quotidiano, 18 gennaio 2012)